Cominciamo subito da un dato decisamente e sorprendentemente positivo. La copertura televisiva del terremoto che ha colpito Amatrice e dintorni è stata su tutte le reti più che dignitosa, a tratti eccellente. Sia le all news sia quelle reti generaliste che hanno piegato il loro palinsesto in un modello all news hanno dato il meglio di sé. Grande tempestività nel raggiungere i luoghi della catastrofe, inviati e inviate intraprendenti, infaticabili, attenti a illustrare ciò che stava accadendo laggiù piuttosto che la propria presenza, come invece spesso accade in simili circostanze.

Nessuna concessione al sensazionalismo, all’eroismo giornalistico (altro pericolo ricorrente in questi casi), un certo rigore e una certa sobrietà rispettati quasi sempre. Occorre dire che a creare questo clima ha giovato anche il comportamento di chi aveva ruoli istituzionali. Si sono visti sindaci di piccoli borghi che hanno reagito alla catastrofe con straordinaria dignità e lucidità, responsabili della protezione civile degni della massima fiducia, rappresentanti del governo e del parlamento arrivati sul luogo della tragedia senza l’intenzione di fare la loro personale passerella.

Il confronto con quanto accaduto sette anni fa a L’Aquila con le varie buffonate berlusconiane è inevitabile e rassicurante. Detto questo, qualche problema resta aperto, qualche tentazione sembra impossibile da vincere del tutto, qualche scivolata su un terreno tanto delicato è forse inevitabile, ma vale la pena di analizzarla. Una prima tentazione è quella della retorica, della deriva dell’informazione verso la più banale tv del dolore. Il rischio, si sa, è difficile da evitare in certe circostanze, di fronte alla morte, al trauma, ai bambini che si sono salvati in extremis e a quelli che non ce l’hanno fatta e che spingono a rifugiarsi nelle solite formule di miracolo, di eroe salvatore, di angeli volati in cielo.

D’altronde se gli inviati della tv, che seguono in diretta gli avvenimenti, si sono lasciati andare talvolta su questa strada, non sono stati da meno i giornalisti della carta stampata che pure avrebbero più tempo e una maggiore distanza per riflettere sulle categorie da usare nel loro racconto. La seconda tentazione è più complicata da definire, da circoscrivere e da arginare. La definirei come una sorta di pericolosa idea di onnipotenza televisiva (non un delirio, solo un’abitudine). Si tratta dell’idea (e della pratica) secondo la quale l’immagine televisiva è in grado di mostrare tutto minuto per minuto, di avvicinarsi alle cose più di ogni altro tipo di osservazione, di entrare dentro la realtà come nessun altro tipo di visione può fare. E se è in grado di fare questo per la sua natura tecnologica, lo deve fare.

Ecco dunque che bravissime giornaliste ci accompagnano a vedere in diretta a distanza ravvicinata il lavoro di scavo delle ruspe tra le macerie. Ovvio che l’attesa, la speranza di tutti, giornalisti e spettatori, narratori e ascoltatori, è quella di assistere a un salvataggio in diretta. Ma il più della volte il lieto fine non c’è e quello a cui si assiste è, come recitava il titolo di un famoso film, la morte in diretta. Con tutti i problemi che ne derivano, di violazione del pudore e dell’intimità, di sconfinamento in un orrore fine a se stesso. Difficile stabilire il limite tra diritto e soprattutto dovere di cronaca da un lato e ingiustificata spettacolarizzazione dall’altro.

Un buon criterio, in teoria, è quello del valore informativo dell’immagine: se aggiunge qualcosa, se documenta, come ha detto Mentana all’inviata a cui non ha fatto mandare in onda la foto dell’intera famiglia distrutta, si usa, se è solo un modo per mostrare quanto è forte, penetrante, puntuale l’immagine televisiva, meglio farne a meno. Almeno così dico io ai miei studenti, anche se capisco che poi sul campo è assai più difficile scegliere.

Un’ultima osservazione. Se, come ho detto, nel racconto del tragico evento la tv ha questa volta mostrato una certa qualità informativa e una sua linearità, non altrettanto si può dire per il resto della programmazione di quegli stessi giorni. Programmi cancellati in quanto non in sintonia con il clima luttuoso e sostituiti da altri programmi scelti in maniera un po’ casuale, rubriche quotidiane come Techetechetè riempite di contenuti ritenuti più seri, in realtà molto discutibili. Mi pare che la tv, in particolare il servizio pubblico, abbia imparato meglio a rappresentare la morte che a celebrare il lutto.

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