Il Governo ha varato la tanto attesa ipotesi di rinnovamento del sistema camerale, agendo nell’unico modo che conosce: l’utilizzo del coltellaccio da beccaio per l’ennesima macelleria istituzionale; a uso e consumo di un pubblico pronto “a bersi” l’idea semplicistica che razionalizzare è sinonimo di taglio a casaccio. Lo aveva fatto il ministro Del Rio con i porti, imponendo accorpamenti a prescindere dai flussi delle merci; se lo accredita di nuovo la ministra Madia cancellando 39 delle attuali 99 Camere in attività. Nella presunzione di migliorare l’efficienza di sistema con il risparmio di qualche gettone di presenza dei consiglieri defalcati.

Ma i corifei e i lecchini del governo in servizio permanente, presenti anche ai vertici di quel sistema camerale che pure dovrebbero tutelare (tipo centopoltrone Ivan Lo Bello, presidente di Unioncamere nazionale oltre che intercettatore indefesso di cariche nell’associazionismo di Confindustria e non solo), ne parlano senza arrossire come “un doveroso intervento di modernizzazione”. Lo erano anche quelle operazioni nel settore petrolifero di cui il Lo Bello discuteva telefonicamente con Gianluca Gemelli, il boyfriend della già ministra Federica Guidi, per cui il suo nome è scivolato in un’inchiesta del tribunale di Potenza?

Nel frattempo gli anticipi della riforma che si è avuto già modo di vedere all’opera risultano costruzioni impossibili, a totale negazione di qualsivoglia ragionevolezza organizzativa, prima ancora dei criteri elementari di una sana amministrazione; tanto da far pensare all’escogitazione di un legislatore in grave stato etilico. Tipo la testé costituita Camera di Commercio Riviere di Liguria, che assomma Imperia, Savona e La Spezia; al cui riguardo qualcuno dovrebbe spiegarci il senso di una sommatoria priva di contiguità (non sapevamo che Imperia confinasse con Spezia…) e altrettanto sprovvista della benché minima omogeneità economica (in un unico mix: l’estremo Ponente turistico e agricolo con l’estremo Levante industriale e marittimo).

Fatto sta che ancora una volta prevalgono iconoclastia rottamatoria purchessia e vandalismo finalizzato a mettere nelle mani del governo ogni leva di potere, facendo fuori ogni corpo intermedio che si frapponga tra il pacchetto di mischia renziano e l’obiettivo. Sia chiaro, qualche volta le Camere di Commercio si riducevano a tavolo di compensazione tra gli interessi delle rappresentanze economiche locali. Specie dopo la riforma del 1993, che prevedeva criteri collusivi nella nomina del presidente camerale. Ma in buona parte dei casi questi strani enti – tra il funzionale e il territoriale, di origine napoleonico-risorgimentale – svolgevano insostituibili funzioni di monitoraggio delle dinamiche di territorio. Supplivano, nella crisi dell’associazionismo imprenditoriale, alle esigenze delle imprese in ambiti decisivi quali l’internazionalizzazione e l’informazione.

Tutto cancellato con un tratto di penna, per consentire a qualche giovanotto/giovanotta in atteggiamento da statista, l’ostentazione demagogica del trofeo rappresentato dall’abbattimento di qualche euro nei diritti camerali. Si potrebbe dire che l’idea conficcata nella testa dei nostri governanti sia quell’organizzazione piatta, priva di intermediazioni e filtri, che i consulenti aziendali degli anni novanta contrabbandavano come modello ottimale per aziende che ne sarebbero state scardinate. Anche allora il modello decisionistico di stampo ducesco fece danni inenarrabili. Figuriamoci ora; applicato non nel profit privato ma in un ambito delicatissimo quale la democrazia territoriale. Pura follia omicida delle istituzioni.

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