Scuola

L’università dei giuramenti: vecchi fascismi e nuove fedeltà

Il fascismo chiese ai professori universitari italiani un atto formale di adesione al regime, che si tradusse nel Regio Decreto. Fu pubblicato esattamente 85 anni fa, il 28 agosto 1931. L’articolo 18 recitava: «I professori di ruolo e i professori incaricati nei Regi istituti d’istruzione superiore sono tenuti a prestare giuramento secondo la formula seguente: “Giuro di essere fedele al Re, ai suoi Reali successori e al Regime Fascista, di osservare lealmente lo Statuto e le altre leggi dello Stato, di esercitare l’ufficio di insegnante e adempire tutti i doveri accademici col proposito di formare cittadini operosi, probi e devoti alla Patria e al Regime Fascista. Giuro che non appartengo né apparterrò ad associazioni o partiti, la cui attività non si concilii coi doveri del mio ufficio”.»

Chi si fosse rifiutato avrebbe perso la cattedra, l’agognata tenure. E ci fu che lo fece: Ernesto Buonaiuti di Storia del cristianesimo a Roma, Giuseppe Antonio Borgese di Estetica a Milano, Mario Carrara di Antropologia criminale a Torino, Gaetano De Sanctis di Storia antica a Roma, Floriano Del Secolo di Lettere e filosofia alla Nunziatella, Giorgio Errera di Chimica a Pavia, Giorgio Levi Della Vida di Lingue semitiche a Roma, Fabio Luzzatto di Diritto civile a Milano, Piero Martinetti di Filosofia a Milano, Bartolo Nigrisoli di Chirurgia a Bologna, Francesco Ruffini di Diritto ecclesiastico a Torino, Edoardo Ruffini Avondo di Storia del diritto a Perugia, Lionello Venturi di Storia dell’arte a Torino e Vito Volterra di Fisica matematica a Roma.

Non furono in molti, giacché la risposta di Don Abbondio al Cardinal Federigo Borromeo è un eterno e fedele ritratto del paese e dei suoi nativi: «Il coraggio uno non se lo può dare». E la distribuzione per settore scientifico disciplinare è imbarazzante per l’area scientifica e tecnologica. Qualcuno che non lo fece allora, forse si pentì, come l’allora giovanissimo Giulio Supino, il quale, come altri docenti ebrei, nel 1938 fu costretto ad abbandonare l’insegnamento di Costruzioni idrauliche a Bologna in seguito alle leggi razziali. Mentre Volterra, forse il matematico italiano più innovativo del Novecento assieme a Bruno De Finetti, fu costretto a lasciare subito la cattedra di Fisica matematica per il suo rifiuto; e fu poi cacciato dall’Accademia dei Lincei nel 1934. Quasi ottantenne espatriò e ritornò in Italia per morirvi nel 1940, quando gli fu perfino negata ogni commemorazione pubblica.

Ieri era ieri e oggi è oggi. Verissimo, ma ha scritto David West qualche mese fa che nel mondo universitario odierno «la fedeltà è diventata la condizione inconfessata per ottenere il favore manageriale e il successo professionale. […] Gli accademici percepiti come sleali vengono ignorati, messi da parte e, infine, invitati a lasciare o costretti ad abbandonare del tutto. […] Per lo stesso motivo, gli studiosi che mostrano la loro fedeltà al nuovo paradigma possono aspettarsi trattamenti di favore nella ripartizione degli insegnamenti, dei fondi d’ateneo, perfino degli spazi e degli arredi. Soprattutto, costoro possono essere promossi in modo certo a posizioni di potere direttivo».

West parla di fedeltà al modello manageriale della propria istituzione accademica. Oggi è il 28 agosto 2016 e sono passati ben 85 anni. Tutti diranno che il mondo è cambiato. Anche l’animo delle persone?