È il dipartimento universitario che forma i geologi, ossia coloro che collaborano alla pianificazione territoriale tramite la valutazione dei rischi naturali, come eruzioni vulcaniche, alluvioni, frane e terremoti. Eppure nel Paese dove il rischio sismico è di tutti i giorni, la geologia è a rischio estinzione. Le sedi di Scienze della Terra in Italia sono passate da 29 (nel 2010) a 8 (nel 2016), per effetto della riforma Gelmini del 2010 che ha imposto il taglio di tutti i dipartimenti che non raggiungano i 40 docenti. Cioè, nel caso di Scienze della Terra, praticamente tutti. Alcune regioni, come l’Emilia Romagna, non hanno più neanche un dipartimento. Quello di Bologna, la prima sede italiana dedicata alla formazione dei geologi, è stata tagliata. Le 8 sedi rimaste sono alla Federico II di Napoli, alla Sapienza di Roma e poi a Bari, Pisa, Firenze, Torino, Milano e Padova. Le altre sono state accorpate ad altre aree, in dipartimenti pot-pourri, sulla base di un tornaconto numerico e non di un progetto formativo vero e proprio. E Pisa e Firenze sono a rischio.
Il punto, ora, è che anche quelle otto sedi sopravvissute alle cesoie della riforma Gelmini rischiano di sparire. Se infatti il numero delle immatricolazioni, dopo il minimo storico del 2008, ha iniziato a crescere, quello dei docenti è in calo. Negli ultimi 10 anni c’è stato un decremento del 10 per cento, equivalente a circa 100 docenti, e le proiezioni per i prossimi 10 anni non sono migliori. Questo significa: blocco del turn over, calo del numero dei docenti all’interno di un dipartimento, chiusura. Per questo entro i prossimi 5 anni anche i dipartimenti più grandi, come Pisa e Firenze, potrebbero trovarsi in grosse difficoltà. E tutto succede mentre nel resto d’Europa (e del mondo), la media dello staff docente dei dipartimenti è tra i 20-30 docenti.
“Se da un lato la numerosità minima imposta dalla legge non comporta, e non sembra aver comportato a sei anni dalla sua applicazione, nessun reale risparmio per la spesa pubblica – commenta a Ilfattoquotidiano.it Rodolfo Carosi, professore ordinario all’università di Torino e rappresentante dei professori di geologia nel Consiglio universitario nazionale – dall’altro la nuova norma sta portando alla scomparsa di dipartimenti universitari storici con una eccellente attività didattica e di ricerca, oltre che inevitabilmente alla perdita dell’identità culturale delle geoscienze”.
E pensare che l’Italia è uno dei Paesi a maggiore rischio sismico del Mediterraneo, per la sua particolare posizione geografica, nella zona di convergenza tra la zolla africana e quella eurasiatica. In 2500 anni, il Paese è stato interessato da più di 30mila terremoti di media superiore al quarto e quinto grado della scala Mercalli e da circa 560 sismi superiori all’ottavo grado. Tutta la zona dell’Appennino centro-meridionale è considerata ad alto rischio sismico. E a questa si aggiungono aree della Calabria, della Sicilia, del Friuli e del Veneto. Solo la Sardegna è completamente salva. Secondo il Consiglio nazionale dei geologi 24 milioni di persone vivono in zone ad alto rischio sismico in Italia.
Per non parlare del dissesto idrogeologico: l’Italia è quasi totalmente a rischio. Oltre 500mila frane sono state già mappate e oltre 5.581 comuni, intorno all’80 per cento del totale, sono a potenziale rischio elevato. La totalità del territorio di Calabria, Umbria e Valle d’Aosta, il 99 per cento delle Marche e il 98 per cento della Toscana sono a bollino rosso. Alla fragilità intrinseca del territorio, dovuta alla conformazione geomorfologica, geologica e geografica, si aggiungono i mutamenti climatici, l’incontrollata speculazione edilizia, la cementificazione degli alvei fluviali, il disboscamento di versanti collinari e montuosi, l’uso di diserbanti su scarpate stradali: tutto ciò che rende un territorio fragile. L’Italia è la nazione più esposta in Europa ai rischi geologici, ma nonostante questo, la nuova carta geologica, elemento di base per la conoscenza del territorio, ha una copertura inferiore al 50 per cento della superficie del paese.
E la risposta qual è? Il taglio alla formazione. La geologia – nonostante quella italiana abbia un’elevata qualità scientifica nazionale e internazionale, tanto che i risultati della Anvur, l’Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca, la posizionino tra il quinto e il nono posto nel mondo- soffre della cronica carenza di finanziamenti per la ricerca scientifica; i cosiddetti fondi Prin, ad esempio, sono passati da 137 milioni di euro nel 2003 a soli 38,3 nel 2012 per scomparire nel 2013 e nel 2014. Con la conferma dei limiti numerici risultanti dal decreto sul dottorato di ricerca approvato nel 2013, poi, numerose scuole di dottorato in Scienze della Terra saranno costrette a chiudere. Ma sin dalle scuole medie, l’attenzione a questo settore è pari a zero: l’insegnamento di Scienze della terra è infatti collocato nei primi anni degli ordinamenti didattici. “Così gli studenti – spiega Carosi – non hanno gli strumenti per la comprensione delle fenomenologie”.
Cosa comporta tutto questo? “In prospettiva – dice Carosi – la mancanza di sedi adeguate dove si formeranno i ricercatori e i professionisti di domani, con un’inevitabile perdita della conoscenza diretta del territorio. Non basterebbe nemmeno ricorrere a geologi da altre nazioni perché la conoscenza del territorio è un fenomeno complesso che si realizza in anni di costante e assiduo lavoro e non si può improvvisare e comporterebbe costi molti alti”.
Nel 2013 è stata presentata anche una proposta di legge (la numero 1892: “Interventi per il sostegno della formazione e della ricerca nelle scienze geologiche” ) per, tra le altre cose, abbassare il minimo di legge a 20 docenti per un dipartimento e aumentare gli incentivi per le iscrizioni ai corsi di laurea in geologia. Rimasta poi impantanata tre le secche del Senato fino ad oggi, il 3 agosto la commissione Bilancio ha dato parere positivo alle coperture finanziarie del ddl e adesso attende di essere approvata dalla commissione Istruzione.