Donald Trump ha finora inanellato una serie di gesti e dichiarazioni elettoralmente controproducenti. Dalla vittoria della convention repubblicana in poi ha continuato a mantenere un profilo duro e radicale. Uscito trionfante dalle primarie, ma con appiccicata addosso l’etichetta di misogino e xenofobo, non ha fatto nulla per smussare gli angoli più ruvidi della sua immagine pubblica e offrire così un prodotto più rassicurante al grande elettorato moderato che dovrebbe spalancargli le porte della Casa Bianca. Anzi, ha continuato ad attaccare i musulmani, ha invitato i russi ad hackerare la mail di Hillary Clinton, ha lasciato intendere che il popolo del secondo emendamento (quelli che vanno in giro armati, insomma) avrebbero potuto fermare la sua avversaria democratica e poi si è andato a impegolare in una polemica con la madre di un soldato americano, e musulmano, morto in Iraq. In poche parole, ha detto tutte quelle cose che se anche le pensi te le tieni per te, ammesso che tu ambisca ad accaparrarti la maggioranza relativa dei consensi nel tuo Paese.
È altrettanto vero che Trump le primarie repubblicane le ha vinte così, ha esordito con il muro e i messicani stupratori, e poi ha continuato su questa scia del politicamente scorretto per mesi. Ma è chiaro che ciò che trova consenso tra l’elettorato repubblicano non è lo stesso che convince gli americani nel loro complesso a votarti. E infatti Trump ha rapidamente sperperato, in pochi mesi, il vantaggio elettorale con cui aveva esordito nel suo confronto diretto con Hillary Clinton. Come gli ha giustamente fatto notare Reince Priebus, il capo del Comitato Nazionale Repubblicano, dalla sua investitura in poi Trump ha procurato talmente tanti danni alla sua stessa campagna che avrebbe ottenuto un risultato migliore restandosene a giocare a golf nel suo club in Florida. E allora torna attuale la domanda che ha accompagnato tutta la recentissima e finora breve carriera politica del magnate newyorkese. Trump vuole davvero vincerle queste elezioni presidenziali?
Credo sia ragionevole mettere da parte le teorie cospiratorie sul sabotaggio dei democratici a danno dei repubblicani, ricordando però come sia un parte della stampa sia alcuni membri del partito repubblicano si siano quanto meno intrattenuti seriamente su tali speculazioni. L’ex governatore della Florida Jeb Bush lanciò un famoso tweet, lo scorso anno, in cui lasciava intendere, non sappiamo quanto seriamente, che Trump avrebbe potuto avere chiuso un accordo con Hillary Clinton per facilitare una vittoria democratica. Mentre il commentatore politico Brian Cates arrivò addirittura a sostenere che Trump si fosse candidato su spinta di Bill Clinton.
Negli ultimi mesi Donald Trump ha sicuramente messo in atto una strategia che ha indirettamente avvantaggiato la sua avversaria democratica, ma l’ipotesi che ciò sia stato fatto di proposito e che il candidato repubblicano abbia iniziato la sua carriera politica per sbaragliare gli altri contendenti del suo stesso partito e offrire un avversario facile alla Clinton è estremamente azzardata. Anche perché il fenomeno Trump ha colto un po’ tutti di sorpresa e la sua vittoria alle primarie repubblicane era tutto tranne che scontata.
Un’altra variante dell’ipotesi cospiratoria è invece quella secondo cui Trump avrebbe soltanto dovuto creare scompiglio nel campo dei repubblicani per conto dei democratici, riproponendo ad esempio un tema come quello razziale che i conservatori americani avevano ormai messo da parte da alcuni anni. Ma anche qui, lo scompiglio che ne è venuto fuori è certamente superiore a quello che sarebbe stato prevedibile. E alla luce di quello che sarebbe stato prevedibile un anno fa viene da chiedersi se a qualcuno sarebbe convenuto mettere in piedi un piano simile.
Il regista americano Michael Moore ha da poco messo sul tavolo una nuova teoria, di cui lui tra l’altro si dice estremamente sicuro, pur non potendo spiegare nel dettaglio perché. Secondo Moore l’attuale candidato repubblicano alla presidenza degli Stati Uniti avrebbe inizialmente annunciato la sua partecipazione all’agone soltanto per attirare l’attenzione su di sé e potere così ottenere un contratto migliore dall’emittente televisivo Nbc che ospita il suo programma, The Apprentice. Un paio di comizi, qualche intervista, un sacco di clamore, e poi di nuovo indietro alla vita di sempre. E invece sarebbe successo qualcosa di inatteso da tutti, perfino dallo stesso Trump. Una buona parte della popolazione americana si è infatuata del novello politico, e Trump, preso in un vortice di narcisismo, si sarebbe trovato a vincere le primarie repubblicane quasi senza volerlo, o per meglio dire senza averlo programmato.
Ora però, dice Moore, Trump si troverebbe intrappolato. Da un lato non vuole assolutamente vincere, perché diventare presidente non è mai stato nei suoi piani e oltretutto non è un tipo di vita che potrebbe piacergli. Dall’altro non può permettersi di perdere, perché ciò scalfirebbe la sua immagine di vincente. Quindi vorrebbe farsi gettare fuori dai suoi stessi compagni di partito, e ciò spiegherebbe il suo recente autolesionismo politico. Moore si dice certo che il candidato Trump non arriverà fino al giorno delle elezioni. Il regista però forse sottovaluta l’appeal di un mandato presidenziale. È anche possibile che Trump all’inizio volesse soltanto attirare l’attenzione su di se, ma se così fosse la presidenza rappresenterebbe per lui il compimento dei suoi sogni di gloria. Oltretutto a questo punto tornare indietro non è così facile. Resta quindi la domanda. Siamo di fronte ad errori grossolani di un politico inesperto, male consigliato dal suo staff, o forse Trump il presidente non lo vuole proprio fare?