Ci sono tre elementi che rendono questo ennesimo terremoto un evento tipicamente italiano: i borghi, l’iperproduzione di leggi e la famiglia. Il primo elemento fa sì che l’Italia sia l’indiscussa primatista per quantità di Beni Culturali (e tra questi i borghi) ma la discussa conservatrice di tale patrimonio. Il secondo è che siamo i più prolifici giuristi, tanto da aver elaborato più di 70 leggi per l’edilizia antisismica. Il terzo è che il valore delle tradizioni famigliari porta nei paesi d’origine, specie nelle vacanze e festività, ai ricongiungimenti.
Riguardo ai borghi, forse non ce ne rendiamo conto, ma sono connotativi dell’Italia tanto quanto il melodramma, la moda e la Ferrari. Me ne accorsi anni fa quando, invitata ad esporre dei progetti a Nanchino, quello che interessava maggiormente era il restauro di un piccolo borgo. Da noi però è solo da pochi lustri che i centri storici delle città vengono appetiti e risultano attrattivi per la destinazione residenziale. Stessa sorte nei paesi, dove interi medi e piccoli centri venivano abbandonati o per la città o per costruire, a pochi km, nuovi agglomerati di villette senz’anima e senza architettura.
Si calcola che oltre 6.000 siano i borghi totalmente abbandonati, dal Piemonte alla Sicilia. Laddove per esempio a Salemi, resa in parte inagibile dopo il terremoto del Belice, fu lanciata la provocazione della vendita simbolica a 1 euro di ogni singola unità abitativa. Sulla stessa stregua si sono lanciati amministratori locali, con scarso successo, pur di non lasciar morire questi piccoli gioielli che, sebbene trascurati dagli indigeni, risultano sempre conosciuti e visitati da qualche intraprendente turista, specie straniero.
Il secondo elemento è il numero esorbitante di regi decreti, leggi, circolari: più di 70 riguardo l’antisismica nelle costruzioni, emanate dal 1627 ai giorni nostri. La prima infatti fu varata in Campania dando nome ad un sistema progettuale costruttivo per l’epoca avanzato: il “baraccato alla beneventana”, cui seguì, nel marzo del 1784, sempre nel Regno delle due Sicilie, e per opera di Ferdinando di Borbone, una Legge specifica di norme e modalità per rendere sicuri gli edifici.
Dopo il devastante terremoto di Messina e Reggio del 28 dicembre 1908, che comportò la perdita di oltre 100.000 vite umane e oltre il 90% del patrimonio architettonico, fu varato il R.D. n. 193/09 che, tra l’altro, per la prima volta, individuava le zone sismiche in Italia. Si susseguirono, da allora sino al 2012, con una cadenza quasi annuale, norme di varia natura, puntuali ed esaustive; dando in certi casi il compito alle Regioni di mappare ulteriormente il territorio.
Progettisti (ingegneri e architetti) avevano quindi, con l’apporto fondamentale dei geologi, tutte le indicazioni per operare , mentre gli Uffici Tecnici dei Comuni e gli Enti posti alla vigilanza (Vigili del Fuoco, Asl, etc) per controllare. Purtroppo, spesso, la fretta, la superficialità, l’incompetenza, la corruzione, l’attenzione più alla forma che alla sostanza, faldoni di elaborati consistenti solo come peso, oltre che Direzioni Lavori disinvolte e prone a costruttori disonesti, collaudatori collusi e compiacenti, hanno fatto sì che progetti approvati ufficialmente, secondo il rispetto dei criteri antisismici, e regolarmente collaudati, siano stati poi causa di crolli alla prima scossa.
Le responsabilità purtroppo vengono declassate come fatalità o per magnitudo eccezionali su edifici in pietra troppo vetusti per poter “tenere” e altre squallide scusanti, mentre la tecnologia, sempre più avanzata, e una adeguata preparazione professionale, consentono di progettare nuove costruzioni e restauri indenni da sorprese e lo dico per esperienza sul campo. Il fatto poi più triste di tutta la vicenda è che in questa immane nuova tragedia una tradizione antica quanto dolcissima, e che mi riporta anche alla mia infanzia, è anche stata la strage dei bambini che andavano a trovare i nonni nei paesi d’origine. Quella che doveva essere la vacanza più serena e sicura, si è rivelata un incubo per i genitori sopravvissuti.
E poi l’immenso patrimonio di bellezza di 5 borghi e quasi 300 beni che rappresentano la cultura nel cuore dell’Italia, persi per sempre nel loro tessuto originale. La frase infatti che viene ripetuta più frequentemente in questi giorni è “dov’era com’era” mutuandola dal discorso del Sindaco di Venezia nel 1903, dopo il crollo del Campanile di San Marco che venne abilmente “ricostruito” dall’arch. Luca Beltrami, il teorico del cosiddetto “restauro storico”; tale teoria, negli anni abbandonata per un dibattito acceso su come fosse corretto scientificamente intervenire, sta riprendendo vigore, nel bene e nel male. Ma è altrettanto vero che, anziché riproporre e riprodurre l’antico nel segno della storia e dell’affettività, sarebbe più saggia e più etica, un’accurata, costante, mirata opera di seria manutenzione preventiva per la vita e la bellezza.