La storia del comandante Francesco Schettino a bordo della Costa Concordia la notte tra il 13 e il 14 gennaio 2012 non cambia. La prima ricostruzione, poi l’inchiesta giudiziaria, il processo di primo grado, infine il giudizio d’appello. La verità su come si comportò l’ex capitano Schettino è sempre rimasta uguale: ha abbandonato la nave pur sapendo che a bordo c’erano ancora passeggeri da salvare. Mentre si allontanava dalla nave che aveva portato sugli scogli delle Scole, all’isola del Giglio, già si contavano i primi cadaveri (le vittime furono 32). E alle autorità che gli chiedevano conto del suo comportamento, continuò a mentire per ore. Prima all’operatore della sala operativa della Capitaneria di porto di Livorno – il sottocapo Alessandro Tosi – e poi all’ufficiale di turno, il capitano di fregata Gregorio De Falco. Mentì su cosa stava avvenendo a bordo (non fosse altro perché non c’era), mentì su cosa avrebbe fatto. “Vada a bordo!” gli urlò De Falco, “Va bene, comandante” rispose lui, già accomodato su una scialuppa di salvataggio. A bordo – e questo ormai è noto – non c’è mai tornato.
E’ anche su questo che si basa la sentenza d’appello che a Firenze il 31 maggio ha confermato la condanna a 16 anni di reclusione di reclusione e un mese di arresto, cioè la stessa pena inflitta al capitano di Meta di Sorrento dal tribunale di Grosseto, in primo grado.
“Schettino mentì più volte alla Capitaneria”
Ogni versione alternativa fornita da Schettino è stata scartata dai giudici della Corte d’appello di Firenze (presidente Grazia D’Onofrio, consigliere Linda Vannucci, relatore Angelo Grieco) che hanno depositato in queste ore le motivazioni. “Non è attendibile – scrivono i giudici – quanto riferito dall’imputato durante l’esame dibattimentale in merito al fatto che, nel momento in cui saltava sul tetto di una lancia, non si era reso conto che vi erano persone ancora a bordo”; al contrario in quel “preciso momento, Schettino era consapevole che diverse persone si trovavano ancora sul lato sinistro della nave o che, comunque, quantomeno aveva seri dubbi in tal senso e decideva in ogni caso di allontanarsi in modo definitivo dalla Concordia”. Schettino, dicono i giudici, “dopo aver mentito al sottocapo Tosi continuava a raccontare il falso anche a De Falco” mentre “era già in salvo”. L’abbandono nave, l’accusa più infamante per un comandante e un uomo di mare, è così scolpita per l’ennesima volta, forse per sempre (“forse”, perché ancora manca l’ultimo giudizio, davanti alla Corte di Cassazione).
La corsa verso gli scogli del Giglio
Ma restano in piedi anche tutti gli altri capi d’imputazione, i più gravi: l’omicidio colposo plurimo e le lesioni colpose plurime, il naufragio colposo. I magistrati confermano l’impostazione dell’inchiesta della Capitaneria, della Procura di Grosseto e poi dei giudici di primo grado in quasi 700 pagine. E rinsaldano anche la ricostruzione anche di quanto avvenuto prima del naufragio, cioè perché la Costa Concordia – una nave lunga 290 metri e alta 70, con oltre 4200 persone a bordo – è finita su uno scoglio che ha aperto una falla lunga una settantina di metri.
“Ignorò la rotta del cartografo, navigò a istinto”
Schettino non ha mai avuto “l’intenzione” di seguire la rotta del cartografo per fare l’inchino – deciso da lui – al largo del Giglio in onore del capitano Mario Palombo. Piuttosto ha voluto “navigare secondo il suo istinto marinaresco, più a ridosso dell’isola, confidando nella sua abilità”. Una rotta – la sua – “non comunicata ad alcuno”, per giunta. Una rotta – e questa è storia che ha portato la nave sugli scogli. E, oltre alla testimonianza (“attendibile”) del cartografo Simone Canessa, in aiuto – secondo i giudici – arriva anche la telefonata di Schettino con lo stesso Palombo, durante la quale il comandante della Concordia si informava se “”c’era acqua alta sufficiente in un punto a una distanza inferiore” a quella prevista dalla rotta di Canessa, a mezzo miglio dalla costa, cioè a circa 900 metri. Quando la nave raggiunge il cosiddetto “way point” fissato dal cartografo, lo supera e non lo rispetta. Prosegue e fa da solo. Come hanno scritto i consulenti nella maxi-perizia, “il comandante con una manovra appena più decisa ben avrebbe potuto seguire la rotta tracciata da Canessa, cosa che evidentemente non voleva e non faceva”.
“Come fa Schettino a pretendere di essere esente da colpe?”
La linea difensiva tenuta dagli avvocati di Schettino fin dall’inizio – scaricare un po’ di colpe sugli altri membri dell’equipaggio in plancia quella sera, a partire dal timoniere indonesiano – viene respinta. “Non si comprende – mettono per iscritto i giudici di appello – come Schettino, al vertice della catena di comando, possa pretendere di andare esente da responsabilità per le sue numerose condotte colpose, commissive e omissive, che hanno portato la nave al naufragio solo perché profili di colpa concorrente (di gravità molto minore) sono stati ravvisati anche nelle condotte dei suoi sottoposti”. “Schettino non può fondatamente assumere di non rispondere delle sue azioni – continuano – perché sostanzialmente gli ufficiali a lui subordinati, presenti in plancia, non lo avevano informato e non gli avevano segnalato la pericolosità della sua condotta” caratterizzata da “numerose e precise regole generiche e specifiche di corretta navigazione”.
“Da Schettino ordini in inglese e il timoniere non lo capiva”
Quindi “nessuna pentola bollente” gli fu passata da Ciro Ambrosio, primo ufficiale, anzi proprio il fatto che Schettino scelse la rotta di testa sua fu “un’ingerenza”. E nessuna responsabilità ulteriore ha Jacob Rusli Bin, il timoniere indonesiano. Schettino gli dà indicazioni in inglese, violando la regola per cui a bordo la lingua ufficiale è l’italiano. E Rusli Bin non capisce bene l’inglese. E questo doveva essere noto – scrivono i giudici – a Schettino che invece “si avventurava in una manovra rischiosa senza procedere alla sua sostituzione”. Come se non bastasse il comandante cominciò a impartire “una raffica stringente di ordini in inglese a brevissima distanza l’uno dall’altro”. Ordini, dicono ancora in sostanza i giudici, che confusero il timoniere. Anche se un eventuale errore di quest’ultimo – come più volte sostenuto dai legali di Schettino nei vari dibattimenti – non furono decisivi: la Concordia era già lanciata verso gli scogli.
“Ma non poteva prevedere il disastro”
Ma la pena non si alza per Schettino. Il pg, come la Procura di Grosseto in primo grado, aveva chiesto 27 anni. Ma anche questa volta i giudici non hanno riconosciuto la cosiddetta “colpa cosciente“. Certo, la situazione di emergenza era grave, ma secondo la Corte d’appello l’evento (e le sue conseguenze) non erano prevedibili “in concreto” da parte di Schettino. “Non è possibile affermare con certezza se l’imputato avesse sottovalutato la situazione a causa di una vera e propria ‘fuga dalla realtà‘ successivamente all’impatto, o piuttosto se la sua attenzione e le sue condotte fossero focalizzate sul tentativo di salvare la nave, come appare più plausibile”, scrivono i giudici. C‘è invece una parte che i giudici di secondo grado accolgono, del ricorso del procuratore di Grosseto. Quella dell’interdizione di Schettino dai titoli professionali marittimi. La sentenza, così, ha disposto il divieto di praticare qualsiasi professione marittima.
Da domani l’ultima parte di vita del relitto
Il primo settembre la Concordia percorrerà il suo ultimo viaggio. Il relitto lascerà l’area dell’ex superbacino, nel porto di Genova, dove arrivò il 27 luglio 2014, per raggiungere l’area delle Riparazioni navali dove sarà completato lo smaltimento dello scafo. Il convoglio che lo accompagnerà sarà lungo oltre 200 metri e viaggerà a una velocità massima di un nodo. La distanza è di circa due miglia. Dopo la rimozione degli ultimi allestimenti interni tutto sarà smantellato e avviato allo smaltimento o al recupero. Con la demolizione dell’ultima parte di lamiere, la Concordia non avrà più nemmeno un nome. Non rimarrà più nulla. La nave, costruita alla Fincantieri di Sestri Ponente, morirà nella stessa città in cui è nata.