La fertilità come dovere, l’infertilità come una colpa. Donne, patria e figli come da Ventennio fascista. Il richiamo alla Costituzione senza alcun accenno al fatto che se ne venisse rispettato almeno l’art. 1, forse il resto verrebbe da sé. Il 22 settembre il ministero della Salute lancia il #fertilityday, una giornata pensata apposta per ricordare, soprattutto a noi donne, che siamo in scadenza e che se “non ci diamo una mossa” (cit.) rischiamo di restare con la culla vuota. Il tutto pensato con una campagna di comunicazione che se non fosse purtroppo reale, farebbe solo ridere.
La campagna gioca sui sensi di colpa, sulle responsabilità implicite di fronte allo Stato e, peggio ancora, di fronte a noi stesse, su accostamenti impropri quali la creatività e il desiderio di essere genitori (si può essere creativi anche senza figli, neanche a dirlo), sulla bellezza messa in relazione al nostro apparato riproduttivo. Un unico richiamo alla sterilità maschile stigmatizzata con una banana marcia. Persino il riferimento all’utilizzo di droghe e alcol, inserito in quel contesto fatto di donne con una clessidra in mano e l’altra sulla pancia, risulta inappropriato. Perché la comunicazione non è solo immagine ma veicola contenuti e mettere sullo stesso piano le responsabilità di chi si droga con quelle di chi non riesce ad avere figli per via dell’età è quanto meno inappropriato.
In compenso nessun richiamo agli incentivi per l’infertilità e alle risposte del Servizio sanitario nazionale, alle discriminazioni sul lavoro subite dalle donne dopo il parto, agli ammortizzatori sociali, ai servizi rivolti alle famiglie, a una campagna vera di emancipazione culturale rispetto alle politiche di genere che includa l’ambivalenza delle responsabilità genitoriali.
Il punto non è volere o non volere un figlio. Il punto è che nessun governo ci può consigliare di farlo. Meno che meno con un approccio di merito e paternalista. La ministra Lorenzin non è nuova a queste uscite. Già in passato parlò di educazione alla maternità tanto da sollecitare, tra le altre, una mia viva reazione.
Ora il punto è spiegarle che nessuna di noi deve essere educata a un bel niente e che siamo talmente consapevoli della nostra condizione da comprendere tutti i limiti di quella campagna. Il primo è che non ci riguarda. Non ci riguarda perché noi chiediamo altro e ci misuriamo sui contenuti tradotti in servizi e politiche. Non ci riguarda perché non abbiamo bisogno che qualcuno ci ricordi di non essere fertili per la vita, lo sappiamo bene e se il limite di età è stato superato nella gran parte dei casi vuol dire che il limite stesso era in qualcos’altro oppure che è stata una libera scelta. In un caso e nell’altro quella campagna non serve. Non ci riguarda perché non affronta i motivi alla base delle nostre scelte, non scioglie i nodi da risolvere, non spiega il perché dei viaggi all’estero di chi non riesce ad avere figli, il perché dei bonus bebè ne facciamo ben poco.
Non serve perché non racconta nessuna e nessuno di noi, non ci dice che esistono altre mille famiglie possibili ma ci indica pericolosamente la strada della fecondità come strategia di Stato.
Allora propongo che la risposta sia corale perché fatta dalle voci che quella campagna non considera. Come in passato propongo un racconto unico, fatto di tante storie. Scrivetemi a info@genitoriprecari.it e da qui al 22 settembre costruiamo una narrazione differente sulla genitorialità.