Come non manchiamo mai di criticare la Rai quando rinuncia al suo ruolo di servizio pubblico, così mi pare doveroso segnalare i casi in cui svolge questo ruolo nel migliore dei modi, correndo dei rischi e sfidando varie difficoltà. E’ esattamente ciò che è accaduto lunedì scorso in prima serata su Rai 1. Ricorreva quel giorno il venticinquesimo anniversario dell’uccisione di Libero Grassi e tra i prevedibili ostacoli di un pubblico ancora distratto dal clima agostano, di una critica che si eccita solo per la serie americane e di un’attenzione ancora rivolta alla tragedia del terremoto, è andata in onda una produzione piuttosto originale e di non poca qualità.
Io sono libero è il semplice, efficace titolo di questo raro esempio di docufiction in cui le parti di scrittura originale e di materiali di documentazione sono perfettamente equilibrate. L’esito, non clamoroso, si può considerare incoraggiante, visto che due milioni e mezzo di spettatori non sono pochi e comunque sufficienti per vincere la serata. Sarà anche il caso di ribadire, in tempi di auspicato rinnovamento, che il primo compito del servizio pubblico è quello di seminare: la raccolta verrà dopo. Io sono libero è risultato un prodotto perfetto per questa semina, non particolarmente difficile ma originale. Il racconto si sviluppa su tre livelli. Il primo ruota attorno alla figura di un giovane giornalista idealista e coraggioso, con fidanzata carina al seguito, determinato a seguire e appoggiare la battaglia di Grassi.
Nonostante la presenza di un bravo attore come Alessio Vassallo questa sembra inizialmente la componente più debole, non priva di soluzioni prevedibili e di un pizzico di retorica. Ma alla fine il racconto si riscatta con un guizzo formidabile: l’inattesa sequenza che allinea tutte le vie dedicate a Libero Grassi in varie città e borghi d’Italia. Il secondo livello è costituito dalla ricostruzione dell’ultimo anno di vita del protagonista, del suo vissuto familiare, dei rapporti con l’ambiente palermitano. E qui la fiction non solo ha il merito di non nascondere colpe, ignavie, collusioni varie, dai banchieri all’associazione degli industriali, ma è arricchita da interviste vivaci e sincere ai figli, agli amici, ai magistrati.
Il terzo livello è quello in cui la vicenda di Libero Grassi si intreccia con la storia della televisione italiana, con il ruolo dell’informazione televisiva nella denuncia del sistema mafioso, con le indimenticabili esperienze di Samarcanda fino alla famosa staffetta tra Santoro e Costanzo in una serata al teatro Biondo e al Parioli in ricordo di Libero. Qui, senza nulla togliere al valore delle testimonianze di Sandro Ruotolo e Simonetta Martone, alle stesse parole di Grassi, c’è un’immagine che riassume in sé tutto, un’immagine che, ogni volta che rivedo quei brani di televisione, mi lascia senza fiato.
E’ l’immagine del volto di Giovanni Falcone ospite sul palcoscenico del teatro nel momento dell’intervento di Totò Cuffaro che prende il microfono dalla platea. Mentre Cuffaro sbraita le sue assurdità sul complotto giornalistico ai danni della miglior classe dirigente siciliana, sull’uso mafioso dei media, il viso di Falcone esprime tutte le sfumature del suo stato d’animo: incredulità, disprezzo, malinconia, rassegnazione.
Tra i tanti meriti di questa fiction, c’è anche questo: aver riproposto non fugacemente quell’immagine-simbolo che dovrebbe stamparsi in profondità nella memoria degli italiani per far comprendere quanto è stata terribile, per difficoltà, durezza, ambiguità la lotta contro la mafia. E certamente lo è ancora.