Depositata in Parlamento la relazione sull'applicazione della riforma del 2015 approvata per ridurre l'uso del carcere preventivo. Ma alla richieste di via Arenula ha risposto soltanto un ufficio giudiziario su tre. Risultato, i numeri sono poco significativi e non confrontabili con il passato. Su 12mila provvedimenti di limitazione della libertà, il 46% ha comportato la detenzione in cella. Insorge l'Unione delle Camere penali. Via Arenula: "Rilevazione in tempi stretti, integreremo quando arriveranno gli altri dati"
Quasi la metà delle richieste di custodia cautelare del 2015 hanno comportato il carcere per l’indagato. Ma è polemica sulla significatività del dato, contenuto nella relazione sulle misure cautelari predisposto dal Ministero della Giustizia e presentato in Parlamento. Al monitoraggio previsto dalla legge per verificare gli effetti della riforma del 2015, orientata a ridurre l’uso della carcerazione prevemtiva in favore di misure più “leggere”, ha infatti risposto solo il 35% per cento dei tribunali scelti come “campione” dalla Direzione generale del ministero: 48 su 136, e per di più – si legge nella relazione – la maggior parte delle sedi giudiziarie coinvolte sono uffici medio-piccoli a eccezione del tribunale di Napoli.
Detto questo, dalla relazione emerge che nel 2015 sono state emesse, dagli Uffici che hanno risposto al monitoraggio, 12.959 misure cautelari personali. La custodia cautelare in carcere è stata disposta in 6.016 casi, pari al 46% del totale. Seguono gli arresti domiciliari con 3.704 casi (29%). Infine, l’obbligo di presentazione alla polizia in 1.430 casi, pari all’11%. “Questo dato – si legge nel report – è certamente rilevante, in quanto indica che la misura carceraria è stata utilizzata meno della metà delle volte in cui l’autorità giudiziaria ha emesso un’ordinanza di misura cautelare personale”.
Il documento analizza poi – sempre in modo assi parziale rispetto al panorama nazionale – il numero dei procedimenti, 3.894, in cui nel corso del 2015 sono state applicate misure cautelari: la quasi totalità, 3.743, risultano iscritti nel 2015, mentre 151, meno del 4%, in anni precedenti. Questo, rileva il ministero, dimostra che al requisito della “attualità” delle esigenze cautelari – uno dei pilastri della riforma – “è stato dato adeguato rilievo” da parte dei magistrati. Più in dettaglio, dei 3.743 procedimenti iscritti lo scorso anno, 42 risultano essersi chiusi con sentenza definitiva di assoluzione, mentre per 156 è intervenuta una sentenza di assoluzione ma non ancora definitiva, perché l’iter processuale è in corso. “Le assoluzioni definitive – si legge nel documento – impattano 14 procedimenti con misura carceraria e 15 con misura detentiva domiciliare. Quelle non definitive, 69 procedimenti con misura carceraria e 52 con domiciliari”.
I procedimenti iscritti nel 2015 per i quali è stata emessa una misura cautelare personale e una sentenza di condanna non definitiva, anche con sospensione condizionale della pena, sono stati 2.406 e la custodia cautelare in carcere è stata disposta in 1.006 procedimenti, il 42% del totale, mentre nel 58% dei casi si è scelta una misura alternativa che nel 34% dei casi è stata l’arresto domiciliare. E questo “sembra dimostrare l’impatto delle disposizioni” sull’uso del braccialetto elettronico, si legge nel documento. Le rilevazioni si riferiscono al 2015, sono partite il 19 gennaio 2016 e si basano sui dati pervenuti il 29 febbraio successivo.
Oltre a lamentare la parzialità e la scarsa rappresentatività statistica dei dati, l’Unione delle Camere penali contesta l’ottimismo del ministero guidato da Andrea Orlando. “Il dato del 46% avrebbe dovuto far riflettere su come resti altissimo il ricorso alla custodia cautelare in carcere”, si legge in un documento dell’associazione dei penalisti, “nonostante il legislatore abbia sempre inteso l’adozione di questo strumento da parte del giudice quale extrema ratio, e dovendosene conseguentemente auspicare un’applicazione ‘residuale’ e, dunque, davvero marginale in termini statistici”. Una “occasione mancata”, per l’Unione delle camere penali, presieduta da Beniamino Migliucci, di far emergere dati e “abusi” nell’utilizzo della custodia cautelare in carcere.
“È triste che solo un tribunale su tre abbia risposto al monitoraggio” e “soprattutto dai dati emerge che circa una persona su quattro non avrebbe dovuto essere privata della libertà” afferma all’Ansa Enrico Costa, ministro Ncd degli Affari regionali ed ex viceministro della Giustizia. “Da parlamentare sono stato tra i promotori dell’emendamento che prevedeva di monitorare i dati sulle misure cautelari e che è stato inserito nella legge: le risposte sono arrivate solo dal 35% dei tribunali coinvolti, una quota troppo bassa, a mio giudizio, per avere un quadro oggettivo e rappresentativo”.
Sull’onda delle polemiche è arrivata la precisazione del ministero della Giustizia. Questa “prima relazione riporta il contenuto dell’avvio del monitoraggio, che è stato eseguito soltanto in un mese, tempo molto ristretto che a questo punto va reso più adeguato”, si legge nella nota. “La Direzione generale degli Affari penali del Ministero della Giustizia ha previsto quindi di elaborare una integrazione della relazione non appena il numero dei dati forniti da tutti gli uffici sarà completato”. E il mancato confronto con il passato, che rende impossibile valutare gli effetti concreti della riforma sul numero di indagati finiti in carcere? “E’ giusto precisare che trattandosi del primo anno di sperimentazione della legge non erano a disposizione dati comparabili”.