Il candidato repubblicano è volato a Città del Messico per incontrare il presidente Nieto a cui ha detto di voler mettere fine all’immigrazione illegale e per cercare di dare un'immagine "presidenziale". Poi si è diretto a Phoenix dove ha rispolverato i toni e gli argomenti da "tolleranza zero"
E’ volato in Messico per rilanciare un’immagine “presidenziale”, di leader capace di imporsi e dialogare all’estero anche sui temi più difficili. Poi si è diretto a Phoenix, Arizona, dove ha cambiato immediatamente casacca ed è tornato a essere il politico imprevedibile, eccessivo, pronto ad articolare proposte scioccanti e radicali. E’ stato un mercoledì di fuoco per Donald Trump, un mercoledì in cui il candidato ha affidato ancora una volta all’immigrazione – all’immigrazione come evento pericoloso, incontrollabile, catastrofico per gli americani – il tentativo di sollevare le sue sempre più incerte fortune politiche.
Cominciamo dall’ultima parte della giornata, dal discorso di Phoenix. Presentato come un “evento importantissimo”, il discorso è servito a Trump per riaffermare, punto per punto, la sua strategia della “tolleranza zero” sull’immigrazione. Senza affrontare direttamente il tema della deportazione per 11 milioni di cittadini che vivono senza permesso negli Stati Uniti, Trump ha comunque ripetuto che “il muro con il Messico si farà” e che “lo pagheranno loro, i messicani, al 100 per cento”.
A Phoenix Trump ha salutato “il grande popolo e i grandi leaders del Messico” (d’altra parte era appena tornato dall’incontro a Città del Messico con Enrique Peña Nieto), ma ha subito aggiunto che “dal Day One della mia presidenza, cominceremo a lavorare su un muro impenetrabile, alto, potente, bellissimo, al confine meridionale degli Stati Uniti”. Facendo piazza pulita di tutti i dubbi e le aspettative su un possibile ammorbidimento delle sue posizioni, il candidato repubblicano ha riaffermato la sua strategia dell’America First e attaccato Barack Obama e Hillary Clinton per essere direttamente responsabili delle violenze perpetrate dagli immigrati.
Obama e Clinton, ha detto Trump, hanno permesso che nelle città americane si creassero dei “santuari intoccabili” per gli immigrati violenti; hanno lasciato che i visti turistici di questa gente scadessero e garantito immunità e amnistia ai più pericolosi. Dopo aver raccontato di cittadini americani morti per mano di migranti illegali, Trump ha accusato Hillary Clinton di voler estendere l’Obamacare e il welfare agli irregolari e di promettere “l’arrivo di un’immigrazione incontrollata, poco specializzata, che continua a ridurre posti di lavoro e salari per i lavoratori americani e specialmente per gli afro-americani e gli ispanici che sono nostri cittadini”.
Trump non è tornato, come nel passato, a proporre formalmente la deportazione per i milioni di senza documenti. E’ apparso più sfuggente e sfumato. Ha detto comunque che chi si è macchiato di reati “verrà allontanato” e che chi vuole restare negli Stati Uniti legalmente dovrà “tornarsene a casa e fare domanda di rientro come tutti gli altri”. In pratica, milioni di persone dovranno lasciare il Paese senza certezza di ritorno. Trump ha anche ribadito la necessità di una politica di “verifica radicale” per chi arriva, con test ideologici e un sistema rigidamente basato sul merito che consenta di scremare i nuovi arrivi (questo è un altro punto che nel passato ha provocato critiche e polemiche, perché considerato un modo per discriminare i musulmani).
Nell’insieme, il candidato repubblicano alla presidenza non ha perso l’occasione per mostrare una visione dell’immigrazione in chiave soprattutto di emergenza e sicurezza. “Quando si parla di immigrazione, c’è un solo elemento da valutare: il benessere degli americani, le loro vite”, ha detto Trump, che ha aggiunto: “Non abbiamo alcuna idea di chi sia questa gente, da dove venga. Non ci sono documenti che lo attestino, non hanno carte di nessun tipo. E, ve lo posso dire con certezza, amici, questa storia finirà male, molto male”.
Toni molto meno duri, più diplomatici, Trump aveva usato soltanto qualche ora prima a Città del Messico, ospite del presidente messicano Enrique Peña Nieto. La visita è stata organizzata in tutta fretta, dopo un invito ufficiale da parte della presidenza messicana a entrambi i candidati alla Casa Bianca (del resto, gli Stati Uniti sono il primo partner commerciale per il Messico e sicuramente il Paese con l’influenza politica più forte). L’incontro a Los Pinos, residenza ufficiale del presidente messicano, è apparso cordiale ma comunque freddo. “Riconosciamo e rispettiamo il diritto di entrambi i Paesi a costruire una barriera fisica o un muro – ha detto Trump in una conferenza stampa con Peña Nieto dopo l’incontro -. Amo gli Stati Uniti e tutti noi vogliamo che gli Stati Uniti siano ben protetti”.
Accompagnato dal senatore repubblicano Jeff Sessions e dall’ex sindaco di New York e suo supporter Rudy Giuliani, Trump ha detto di voler rivedere il North American free Trade Agreement (NAFTA) “che finora è stato molto più vantaggioso per il Messico che per gli Stati Uniti” e ha spiegato di voler mettere fine all’immigrazione illegale, che ha definito “un disastro umanitario”. Accanto a lui, Peña Nieto ha ribattuto educatamente, ma fermamente, che la questione dei confini si risolve con “migliori infrastrutture e tecnologia” e che non esiste un problema di sicurezza a senso unico. “Gli Stati Uniti devono fare di più per bloccare il flusso di armi e denaro che rafforza i cartelli della droga”, ha detto Peña Nieto.
Anche l’incontro con il presidente messicano si è comunque presto risolto in una nuova ragione di polemiche. Trump ha spiegato che nell’incontro in Messico non sono stati affrontati i dettagli di chi pagherà per il muro: “Si è trattato di un vertice preliminare”, ha detto. Gli ha risposto immediatamente, su Twitter, proprio Peña Nieto: “All’inizio della conversazione con Donald Trump, ho subito chiarito che il Messico non pagherà per il muro”. Un portavoce della presidenza messicana ha in seguito affermato che non ci sarà, nel futuro, alcuna discussione formale su presunte spese che i messicani dovranno accollarsi per la costruzione di una struttura ai propri confini settentrionali.
Nell’insieme, il viaggio in Messico e il discorso di Phoenix (fortemente voluti dal nuovo chief executive della campagna repubblicana, Stephen Bannon) sono serviti a Trump per dare da un lato un’immagine più tranquilla e autorevole; dall’altro a soffiare ancora una volta su paure e insicurezze degli americani in tema di immigrazione. Città del Messico e Phoenix hanno mostrato una cosa che appare a questo punto molto chiara. Di fronte a sondaggi sempre poco favorevoli (la media compilata da RealClearPolitics dà il candidato repubblicano indietro di oltre quattro punti rispetto a Hillary Clinton) Trump affida proprio a una visione cupa e delinquenziale dell’immigrazione le sue ultime chance di vincere a novembre.