Smantellare pezzo per pezzo gruppi industriali decotti e ricostruirli pezzo per pezzo all’estero, in Bulgaria. Per riconsegnarli intatti nelle mani dei proprietari originali, previa intestazione a una rete di prestanome, senza passare attraverso rischiose procedure fallimentari. Alla faccia dei creditori, destinati così a restare a bocca asciutta che siano dipendenti, banche, fornitori o il fisco, beffato due volte: dalle aziende e dai loro proprietari. Ma soprattutto beffata, grazie al trasferimento all’estero e a un vuoto normativo comunitario, la legge che punisce il reato di bancarotta fraudolenta e tutti gli altri ad esso connessi.

Il servizio chiavi in mano per aggirare creditori e bancarotta fraudolenta – Il business ricalca il modello del contrabbando di auto rubate. Ma la sua domanda, contrariamente a quella per le quattro ruote, è cresciuta esponenzialmente con la crisi, visti gli oltre 80mila fallimenti d’impresa registrati in Italia tra il 2010 e il 2015 (dati Cerved). A tentare di svilupparlo in tutta Italia ci hanno pensato il commercialista spezzino Vittorio Petricciola e il conterraneo Roberto Piras, pregiudicato “dedito al contrabbando di t.l.r. fin dagli anni settanta specializzatosi – in seguito – nel traffico internazionale di sostanze stupefacenti, da sempre ritenuto vicino ad ambienti della criminalità mafiosa di matrice calabrese”, come si legge nell’ordinanza che ne ha disposto l’arresto eseguita giovedì 1 settembre all’alba. I due, secondo la Procura di Piacenza, hanno promosso un’associazione a delinquere che ha testato il servizio chiavi in mano sul travagliato gruppo Dorini di Piacenza, tra il resto primo concessionario italiano dei veicoli commerciali Volvo oltre che sviluppatore immobiliare, con creditori insinuati ai passivi delle varie aziende del gruppo per circa 60 milioni di euro e quasi 100 milioni di euro di proprietà da mettere in salvo. Anche per consentire all’omonima famiglia e, in particolare, all’erede maschio Pierangelo, di continuare a mantenere un più che agiato stile di vita fino ad allora finanziato direttamente dalle casse aziendali come dimostra il flusso di denaro distratto, secondo l’accusa, per pagare le rate del leasing di un appartamento di 200 metri quadri in corso Venezia a Milano “dove abita Berlusconi, la figlia”. Una piccola parte del totale contando anche la casa di Montecarlo e le spese vive, come lamenta il patriarca Angelo Dorini parlando con la moglie Carmen Grillo intercettato dagli inquirenti: “Scusami lui ha 10mila euro al mese o dodici da pagare a Montecarlo, ascoltami sette, otto, diecimila al mese li spende al bar, ristorante e sono ventimila, lui ha bisogno di ventimila euro tutti i mesi, dove li va a prendere, più ha quattordicimila euro al mese per pagare la casa … sono altri quattordici, lui ha bisogno di 35mila euro al mese, dove li prende, dove li prende, e continua ad andare a fare trappole. Poi lui adesso ha venduto quei 78 appartamenti che gli ha rubati a Giardi, lo so, li ha venduti ma c’è su un mutuo da due milioni e mezzo di euro da pagare e non gli abbiamo dato niente ecco perché … i 78 appartamenti lui li ha girati, ha fatto un giro con Montecarlo, non so, ma anche lì ha fatto delle firme false, adesso poi lo arrestano”, conclude. Trascurando il fatto che secondo il suo contabile una delle società del gruppo non può pagare i contributi dei dipendenti perché costretta a pagare i viaggi di famiglia all’agenzia Viaggi dello Zodiaco. O che lui stesso ha percepito da alcune aziende di famiglia in decozione emolumenti ritenuti dagli inquirenti sproporzionati rispetto alla situazione aziendale e ingiustificati, tanto da essere considerate “delle vere e proprie distrazioni”.

L’inchiesta della Procura di Piacenza e gli arresti – Con l’avvicinarsi della conclusione del lavoro, la “procedura” con la sua articolata rete di prestatori d’opera, è stata ritenuta sufficientemente collaudata dai suoi ideatori che, rileva ancora l’ordinanza, fatti i debiti aggiustamenti e correzioni, l’hanno esportata nel milanese offrendola alla Giemmebi 2000, società di Giovanni Benazzo specializzata nella lavorazione e la tornitura di materie prime oberata da 4,5 milioni di debiti e trasferita in Bulgaria a fine 2015. Ma l’obiettivo, secondo la ricostruzione dei pm, è di cavalcare l’onda lunga della crisi delle imprese italiane in ginocchio estendendo il servizio anche a Parma, a Firenze, a Torino e a Genova. Il sogno si è infranto contro la barriera della Procura di Piacenza che, dopo quasi un anno di indagini coordinate dal pm Roberto Fontana innescate da una segnalazione della Dia di Genova, ha svelato tutte le maglie della rete costituita da prestanome e collaboratori in Italia e all’estero e arricchita da professionisti e curatori fallimentari ritenuti compiacenti dagli inquirenti, oltre ad esponenti delle forze dell’ordine e banchieri che si sono spesi per i Dorini, famiglia di imprenditori piacentini il cui nome era uscito anche nell’ambito dell’inchiesta su Banca Etruria, per via di alcuni prestiti dell’istituto aretino a imprese del gruppo oggetto di una perquisizione del gennaio scorso. In manette sono finite otto persone: Angelo e Pierangelo Dorini, Carmen Grillo (domiciliari), Vittorio Petricciola, Roberto Piras, Pierpaolo Zambella, Giuseppe Fago e Gian Marco Govi. Quattordici, invece, i denunciati a piede libero. Disposto, poi, il sequestro di una lunga lista di beni mobili e immobili oltre alla somma di 739mila euro, per un controvalore complessivo di circa 150 milioni. Le accuse per gli indagati vanno dalla bancarotta fraudolenta al riciclaggio passando per il trasferimento fraudolento di valori e l’associazione a delinquere.

Il metodo Petricciola: “Se la vuoi fare è così, se no te la prendi nel culo, fallisci in Italia” – Dettagliatissimo il quadro tracciato dalle oltre 500 pagine di ordinanza firmata dal gip Giuseppe Bersani. Dove si ricostruisce lo schema operativo seguito dal “gruppo” efficacemente sintetizzato dal suo ideatore (“se la vuoi fare è così, se no te la prendi nel culo, fallisci in Italia”) che con l’evolversi del caso Dorini stila una “monografia” da utilizzare per il futuro. Innanzitutto c’è la vendita del prodotto, ovvero la proposta ai soci e agli amministratori di società decotte di una soluzione globale alternativa alle soluzioni legali per la composizione della crisi d’impresa e che prevede lo svuotamento patrimoniale completo delle società, la conservazione dei beni in capo ai soci mediante intestazione fittizia a soggetti di fiducia e il trasferimento delle società, private di ogni attività, in Bulgaria per impedire la dichiarazione di fallimento in Italia e il conseguente esercizio dell’azione penale per il reato di bancarotta fraudolenta. Se il potenziale cliente diventa tale, la macchina si mette in moto e le società da svuotare vengono progressivamente intestate a prestanome dell’associazione pronti anche a svolgere il ruolo di liquidatori. Quindi si creano delle società ad hoc intestate e gestite dal “gruppo di lavoro” alle quali trasferire i beni mobili e immobili delle aziende in liquidazione in cambio di corrispettivi più che simbolici (spesso inferiori all’1% del valore di stima) e quasi mai versati, per poi riciclare gli stessi beni con altri passaggi di mano per arrivare a portarli in capo ai proprietari originari schermati da prestanome e/o fiduciarie. Quanto alle aziende svuotate, ricostruiscono ancora gli inquirenti, l’iter prevede il loro trasferimento in Bulgaria, non prima di aver aperto delle sedi locali. Il passaggio è fondamentale per escludere la giurisdizione italiana in caso d’istanza di fallimento nell’anno successivo al trasferimento. Una volta effettuato il cambio di sede, infatti, decade la giurisdizione originaria sull’impresa. A rendere ancora più complicata la tracciabilità delle aziende, poi, interviene la loro fusione con delle società locali create ad hoc e il gioco, sulla carta, è fatto.

Il gruppo di lavoro: dalla mente alle teste di legno fino ai professionisti “compiacenti” – A trattare con i clienti per i quali poi studiava il piano operativo e dirigeva le operazioni, secondo i pm era Petricciola. Piras condivideva con lui la direzione oltre ad occuparsi del trasferimento dei camion del gruppo e a mettere a disposizione la sede delle sue attività commerciali spezzine per le riunioni del gruppo. Caso a sé l’avvocato Zambella, consulente legale dei Dorini apparentemente all’oscuro delle trame della partita, ma per la procura era in realtà consapevole e interessato ad avere un ruolo sempre più attivo nel “gruppo”, tanto da non fermarsi neanche quando, nel nuovo caso milanese, si tratta di avere a che fare con la criminalità organizzata per un affare di rifiuti a Voghera. Del resto l’avvocato mostra anche in altre occasioni la più ampia disponibilità nei confronti di affiliati alla ‘ndrangheta come emerge in alcune intercettazioni. Il più importante dei prestanome era invece Giuseppe Fago, lo stesso che era salito agli onori delle cronache l’8 gennaio scorso quando una delle società dei Dorini a lui intestata, la Praha Invest, avrebbe dovuto essere perquisita dalla Guardia di Finanza nell’ambito dell’inchiesta su Banca Etruria. Le Fiamme Gialle – che quel giorno avevano passato al lentino altre due società della famiglia piacentina e quelle di due suoi soci, tra i quali il massone Francesco Casprini – avevano però scoperto che la sede della Praha, beneficiaria di almeno un finanziamento di 2 milioni di euro da parte dell’istituto aretino, coincideva con quella del carcere di La Spezia. Interpellato dalla stampa locale Fago non era entrato nel merito della sede sociale, ma aveva ammesso di non sapere “nulla di Banca Etruria, delle modalità con le quali venivano erogati i finanziamenti, né dell’investimento a Praha. Io facevo da prestanome all’imprenditore emiliano Pierangelo Dorini nella Praha Invest e non ho toccato neppure un centesimo di tutti quei soldi”. Dichiarazione, quest’ultima, che è stata duramente contestata da Dorini junior a chi ne ha dato notizia. Completavano la squadra il rumeno Sorin Moraru, addetto alle attività bulgare, e altre quattro teste di legno. Dall’interno, nel caso piacentino, operava invece Gian Marco Govi, dipendente di fiducia dei Dorini per i quali si occupava dell’amministrazione e della messa in pratica di tutte le decisioni dei vertici ai quali era direttamente a riporto.

Il ruolo attivo dei curatori fallimentari – Ai margini del campo, ma con ruoli essenziali per la riuscita della partita, hanno poi giocato quattro professionisti ritenuti compiacenti dagli inquirenti. Da un lato il commercialista Stefano Godani e il notaio Rosario Patanè, che si sono occupati degli atti necessari per la fuga. Dall’altro i curatori fallimentari di due società del gruppo nominati dal tribunale, Carlo Bernardelli e Antonino Desi che, in seguito alla loro condotta nell’affare Donini, sono stati interdetti per sei mesi dall’esercizio dell’attività professionale (rispettivamente di commercialista e di avvocato) limitatamente all’assunzione d’incarichi e allo svolgimento delle funzioni di curatore fallimentare, commissario giudiziale e liquidatore giudiziale nelle procedure concorsuali. In particolare a Bernardelli il pm contesta il reato di favoreggiamento per aver riferito a Govi e alla Grillo che era in corso un’inchiesta penale a carico del gruppo piacentino. Non solo. Il commercialista era stato interpellato dalla Procura interessata ad ottenere alcune scritture contabili senza esporsi con gli indagati. Ma lui, secondo quanto ricostruito dagli inquirenti, aveva prontamente riferito agli stessi indagati informazioni sull’indagine a partire dal fatto che la richiesta dei documenti non era farina del suo sacco ma della procura, per chiudere con il dettaglio non trascurabile che a svolgere le indagini era la Direzione Investigativa Antimafia. All’avvocato Desi, invece, è contestato il concorso in bancarotta documentale e in falso in atto pubblico in quanto, una volta appresa dagli indagati l’esistenza di un documento contabile chiave sia per l’indagine che per i creditori che avrebbe dovuto tutelare, li avrebbe invitati a sottrarlo alla curatela (“io da curatore non voglio neanche vederlo”, avrebbe detto), cioè a se stesso. E, a sua volta, nella sua relazione sul fallimento della Rent 104 ha omesso di tenere conto del documento come del resto aveva anticipato secondo quanto riferito dai suoi interlocutori: “Io sono anche pubblico ufficiale e bisogna stare attenti a queste cose qui .. anche farmele vedere … io faccio finta di non averle viste”.

Con sentenza del 27 febbraio 2017, il Tribunale penale di Piacenza, ha applicato, su richiesta di Pierangelo Dorini, a seguito di patteggiamento, la pena di anni 4 e mesi 6 di reclusione.

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