Ci siamo cascati di nuovo. Succede spesso così, per motivi che, prima o poi, la scienza si dovrebbe premurare di spiegare. Viene comunicata l’uscita di un nuovo lavoro di Luciano Ligabue. In un mondo normale la cosa ci dovrebbe lasciare indifferenti. Forse addirittura infastiditi. Invece, per i motivi imperscrutabili di cui sopra, ci ritroviamo a chiederci come sarà. Nel senso. Sono ormai venticinque anni e passa che è sempre uguale, con qualche sfumatura che manco i Pantoni, ma noi siamo lì a chiedercelo. E ce lo chiediamo perché, in fondo, anche se spesso capita che socialmente la cosa ci metta in imbarazzo, come succede con certi film estivi alla Sapore di mare, che se li passano in tv li guardiamo ma non è che strombazziamo la cosa ai quattro venti, in fondo Ligabue ha sempre azzeccato almeno un paio di canzoni a album. E lo ha fatto fingendo di fare altro da quello che fa, motivo per cui, in fondo, poi ci ricaschiamo sempre.
Lui, fondamentalmente, scrive canzoni pop-rock, ispirandosi in maniera fedele e pedissequa a Bruce Springsteen, lo sappiamo tutti. Quello è il suo immaginario, e come per il Boss, la sua evoluzione era scritta, bastava scorrere i titoli degli album di Springsteen per sapere dove sarebbe andato a parare di volta in volta. Prima la vita di provincia, gli amici, le macchine che sfrecciano nelle strade notturne, le donne, il bar, il noi contrapposto al voi, ma un noi in cui ci si riconoscerebbe anche uno scout. Poi, lo sguardo sociale, sempre un po’ naif, ma aperto agli altri. Poi, una volta diventato quel che è diventato, un passaggio dal noi all’io, l’esposizione pubblica della propria vita privata. Poi il ritorno a occuparsi degli altri, trasformando il noi che era un noi collettivo, a un noi che diventa sociale. Ma poi, dico io, davvero davvero mi sto dilungando a spiegarvi cosa ha fatto nel corso degli anni Ligabue? Dai, siamo seri. Perché Ligabue è Ligabue, lo conosciamo. Uno che ama fare, e infatti oltre agli album ha fatto i live, con un passaggio anche lì calcolato dai locali ai palasport, fino a arrivare negli stadi e poi nelle mega-aree, da Campovolo a, storia imminente, all’Autodromo di Monza. Ma anche i film, i romanzi, i videoclip, le poesie. Tutto. E tutto sempre fatto bene. Curato. Rifinito. Quella roba lì. Roba che, legittimamente, coinvolge centinaia di migliaia di persone. Rassicurante come solo quello che è prevedibile può essere.
Per cui, torniamo all’inizio, quando abbiamo letto che in concomitanza con gli eventi di fine settembre a Monza, due live di cui si parlerà a lungo, il Liga sarebbe uscito con un nuovo lavoro, ci siamo detti: “Sarà la solita roba”. Ora, io ti imploro, giovane cervello in fuga che applichi il tuo tempo a studiare la mente umane in qualche università in giro per il mondo vieni in nostro soccorso: ci siamo ricascati. È iniziato a girare il titolo del lavoro, Made in Italy, e noi abbiamo iniziato a dire, vuoi vedere che magari il Liga, un po’ come faceva a inizio carriera, riuscirà a tirare fuori una zampata e ci spiegherà, viva Dio, come è fatta l’Italia e l’italiano, il Made in Italy si suppone parli più degli italiani che dell’Italia, oggi? Vuoi vedere che, finalmente, il Liga riuscirà in quello che sembra non stia riuscendo né agli intellettuali più acuti né a quelli più underground, cioè fotografarci senza vestiti? Mostrare il re e i sudditi nudi? Poi è uscita questa cosetta social delle lettere associate alle parole, un modo molto contemporaneo per creare hype intorno a qualcosa, l’uscita del nuovo singolo nello specifico. A come Attenzione. Poi B come Bestia. C come Cacciatore. D come Denti. E come Elezioni. F come Fuoco.
A questo punto, lo confesso, mi sembrava di essere tornato indietro nel tempo, quando ero capace di passare settimane con una maglietta dei Blac Flag o dei Fugazi. Già mi immaginavo il paese messo finalmente a ferro e fuoco, dal basso, la rivolta. E mi immaginavo, ma questa deve essere la sindrome da rientro dalle ferie, Ligabue a fare da colonna sonora. E se ci pensate bene, questa immagine, chiarisce bene come, diciamolo a gran voce, il lavoro sia una tortura cui nessuno dovrebbe essere sottoposto, anche se di lavoro scrivi di musica. Perché poi arriva il singolo, a mezzanotte del primo settembre, e il singolo si intitola G come Giungla, e di tutto quello che mi ero immaginato non c’è ovviamente nulla. Una canzone pop-rock, con una buona ritmica, un video molto patinato, un incalzare vagamente clashiano. E basta.
Il testo, che questo giochino delle lettere e delle parole faceva crede sarebbe stato almeno all’altezza di “Io so” di Pasolini, è un proiettile a salve sparato durante la scena finale di Face/Off. Qualcosa che potrebbe suonare come un “Piove, governo ladro” o un “Non ci sono più le mezze stagioni”, mentre noi ci si aspettava, ma è sicuramente colpa nostra, un j’accuse, o quantomeno una parvenza di rivolta. Niente denuncia. Niente inno rivoluzionario. Niente soluzioni indicate. Sei sul palco di Woodstock e ti limiti a fare una cover di La canzone del sole con la chitarra acustica. Se questa è la premessa di Made in Italy, lo diciamo a gran voce ora, stavolta non ci faremo fregare, e non ci aspetteremo niente di più di quel che già conosciamo. Poi, è chiaro, dentro ci sarà qualche guizzo, perché l’ex ragazzo di Correggio sa quel che fa, ma se vogliamo dare a ferro e fuoco le città conviene ricorrere ai vecchi album di Black Flag e Fugazi, come in effetti sempre sarebbe dovuto essere. Chiudo questa veloce disamina, conscio che tra una decina di giorni questa canzone sarà prima nelle classifiche radiofoniche e Made in Italy, come i due live di Monza, sarà uno degli eventi di questo funesto 2016, lasciando le parole a Ligabue. Mica per altro, ma non mi sembra giusto che a pagare siamo sempre solo noi che scriviamo di musica. “G come Giungla/ la notte comunque si allunga/ le regole sono saltate/ le favole sono dimenticate/ G come Guerra/ E giù tutti quanti per terra/ Non basta restare al riparo/ Chi vuol sopravvivere deve cambiare”.