La recente vicenda della ragazzina violentata da due giovani appartenenti alla potente famiglia Iamonte di Melito Porto Salvo (Rc) e da altri, raccontata da Il Fatto Quotidiano, rivela un elemento terzo in quel contesto culturale, notoriamente piuttosto influenzato dalla ‘ndrangheta. In genere questa organizzazione mafiosa non gradisce vicende di pubblico disonore né, soprattutto, il rumore mediatico.
Nella fattispecie non ravviserei, allora, un delirio di onnipotenza e un senso di impunità che, in virtù di parentele mafiose e rapporti di amicizia, possano aver indotto gli arrestati – nell’ambito dell’operazione “Ricatto” – ad abusare in libertà della ragazza, tredicenne. Come si legge nel pezzo del sempre informato collega Lucio Musolino, infatti, emergono due specifici elementi di riflessione: 1) il silenzio che, secondo gli inquirenti, i parenti dei violentatori avrebbero saputo imporre nella comunità locale; 2) l’immobilismo opportunistico del timoroso, nuovo fidanzato della minorenne, il quale, pur sapendo di atti di violenza sessuale collettiva nei confronti della ragazza, non avrebbe sporto denuncia ed è ora accusato di favoreggiamento.
La ‘ndrangheta classica non contempla questo maschilismo fallico di tipo materiale. Tende invece a imporre alla donna, come è avvenuto nella vicenda dell’eroica Lea Garofalo, un codice di obbedienza e fedeltà che ha una sostanza quasi spirituale. La donna, in altri termini, deve mantenere l’onore dell’appartenenza in qualunque caso e, non di rado, condurre nei fatti o sorreggere l’organizzazione criminale.
La ‘ndrangheta classica pretende l’assoggettamento alla famiglia criminale, ma per un vincolo che, ricordando il titolo di un importante volume di Nicola Gratteri e Antonio Nicaso, ha da fare con una fratellanza di sangue, con un patto inscindibile, con un’adesione immutabile al programma e al destino della cosca di riferimento. Non c’è spazio, in questa visione perfino religiosa, per deviazioni come quella del citato episodio di cronaca; riconducibili, piuttosto, a un’ignoranza ancora diffusa ma non tipica della Calabria, non confinata alle sue proprie latitudini.
A ben vedere nell’accaduto in questione c’è, semmai, una vigliaccheria propriamente bullistica, dal momento che le violenze sono state reiterate e la vittima avrebbe avuto in partenza, cito la ricostruzione di Musolino, “una personalità fragile”. C’è tanto da riflettere, in questo bruttissimo episodio di prevaricazione fisica e psicologica, sul ruolo delle agenzie di formazione in loco che, forse a causa della ‘ndrangheta, sono incapaci di una forte pedagogia di contrasto di barbare forme di dominio.
C’è da pensare a una possibile debolezza della famiglia, che non avrebbe denunciato, e a un’inconsistenza della scuola, che non avrebbe saputo formare un intero gruppo di ragazzi, i violentatori, ormai divenuti maggiorenni. In ultimo, c’è da ipotizzare anche una latitanza della Chiesa, che in Calabria è spesso, non tutta, impegnata nei riti perpetui, nelle ricorrenze e celebrazioni, e non nella costruzione di una mentalità antimafiosa.