Alla fine l’asta fallimentare c’è stata e si è chiusa con un acquisto. La società sarda SharDna, valutata nel 2012 4 milioni di euro, a metà luglio è stata regolarmente acquistata per 258mila euro (217mila sterline) dalla Tiziana Life Sciences Plc, società biotech quotata in Borsa, sede a Londra, testa e capitali italiani. Non una cessione qualsiasi, perché il cuore della società creata nel 2000 dall’attuale europarlamentare Pd Renato Soru è una biobanca genetica. Frutto di oltre dieci anni di lavoro sul campo: in dieci paesi tra Ogliastra e Nuorese, a ridosso della costa orientale, sono stati raccolti 230mila campioni biologici di 13mila volontari. Non solo Dna, ma sieri e altri componenti. Il tutto accompagnato da una mappatura, ossia una ricostruzione precisa delle discendenze storiche con dati incrociati forniti da Curia e archivi comunali. Un pacchetto di grande valore, dunque, in quella che è nota come “la zona dei centenari”. Ma, al di là della caccia all’elisir di lunga vita, la ricerca scientifica punta allo studio delle malattie e le società (anche) a nuovi test diagnostici o eventuali brevetti farmaceutici. Il filo rosso che unisce il passato al futuro è il genetista Mario Pirastu, già direttore scientifico di SharDna, ma soprattutto direttore dell’Istituto di Genetica delle Popolazioni del Cnr di Alghero. Ora è di nuovo lui alla guida di quella che definisce “rinascita”: si dice ottimista, parla di nuove assunzioni e specifica: “La ricerca scientifica non ha confini geografici”. Intanto l’italiano Gabriele Cerrone, a capo di Tiziana, ha ribattezzato la società che si occuperà dei campioni Longevia Genomics srl.
La storia: dall’Ogliasta a Londra, con tappa a Milano – Nonostante i finanziamenti pubblici e privati il business della SharDna non è decollato. Così dopo le prime difficoltà finanziarie nel 2009 è stata ceduta alla Fondazione del San Raffaele di Milano ed è poi stata coinvolta nel crac. Da lì il limbo: il licenziamento dei dipendenti e la liquidazione degli attivi. Oggi, a cessione avvenuta, spuntano le opposizioni e le controversie. Al centro c’è la proprietà dei campioni biologici e soprattutto il loro uso. Al momento della donazione i volontari avevano infatti sottoscritto un consenso firmato intestato a tre soggetti: il Cnr, la stessa SharDna e il Parco Genetico. Quest’ultimo era stato costituito proprio per dare supporto logistico e pratico al progetto, con l’ambizione delle ricadute economiche nel territorio. Ed è proprio nella sua sede ufficiale, il laboratorio di Perdasdefogu, 2mila abitanti, che sono custoditi fisicamente i campioni.
Le chiavi della biobanca in mano a un imprenditore locale – E ora spunta un proprietario, colui che lancia la sfida. È Piergiorgio Lorrai: 57 anni, dentista odontoiatra, imprenditore locale (produce laser per uso medico). Tra il 2013 e il 2014 ha acquistato la quota del Parco in mano a una clinica privata e quelle di due piccoli comuni che per legge non potevano più detenerle. Ora è presidente del Parco e il tecnico di laboratorio che effettua attività di routine dove è custodita la biobanca è una sua dipendente. Ma di chi sono i campioni donati? “Questo è il nodo: sono dei donatori, è chiaro – dice con sicurezza Lorrai a ilfattoquotidiano.it – Non si possono mettere a bilancio, non sono nell’inventario. E invece sono stati messi sul piatto per ripianare i debiti di una società fallita. La vicenda, unica in Italia, pone nuove frontiere sulla proprietà biologica. E se in futuro qualcuno volesse vendere un rene per avere dei soldi?”. Sul da farsi c’è più indecisione: “Al momento ci stiamo muovendo attraverso i nostri legali, sardi e non. Abbiamo posto dei quesiti specifici anche al tribunale e al Garante della Privacy. Aspettiamo, dunque”. L’atteggiamento è battagliero: “Lo schema che si ripete è sempre lo stesso – sostiene Lorrai – la nostra Sardegna attrae idee e investitori e poi qui non resta nulla. Dopo l’impiego di soldi pubblici restano uffici vuoti o i capannoni delle aree industriali con le bonifiche da fare”. L’intento quindi, qual è? “Ho acquistato (per una cifra che non rivela, ndr) solo per aiutare la comunità. L’idea è quella di creare una sorta di onlus in cui la cittadinanza, e i donatori, siano parte attiva”. E ribadisce: “Non siamo contrari a nessuno: né ai nuovi investitori, né alla vecchia società. Ma il fulcro è quel consenso dato e tradito”.
Le perplessità del mondo scientifico – Anche Mario Falchi, genetista sardo che lavora al King’s College di Londra ci tiene: “Non c’è nessuna guerra tra ex, nessuna invidia (come invece ha sostenuto l’acquirente Cerrone in un ampio servizio dedicato dal Guardian, ndr). A parte la cifra ridicola a cui è stata ceduta la società, è soprattutto una questione etica”. E pratica, insiste: “Penso che in qualsiasi momento una persona abbia diritto di ritrattare quel consenso firmato anni fa. Se io ho donato il Dna esclusivamente per la ricerca, dovrei poter negare l’ok quando voglio. Questo è un capitale, e un investimento degli ogliastrini, ed è giusto che ci sia una gestione locale, e perché no, pure delle ricadute. Ciò non impedisce che possano essere intraprese delle collaborazioni volte all’utilizzo di questi dati da parte di company private ed enti di ricerca pubblici”. E i brevetti sono solo uno degli aspetti della complicata vicenda. “Quei dati raccontano il presente, il passato e il futuro. In generale, perdere traccia del proprio Dna può comportare dei rischi. In base alle nuove scoperte, e agli avanzamenti della ricerca scientifica e tecnologica, i dati genetici potrebbero essere utilizzati a danno degli stessi volontari. Una volta ceduti chissà che un giorno si possa arrivare all’individuazione del donatore. E magari un’assicurazione ha interesse a conoscere le malattie o la speranza di vita di una data famiglia per creare un premio ad hoc”.
Il genetista: “Campioni svenduti senza chiarezza su come saranno utilizzati” – “È come se un sacerdote prendesse le trascrizioni delle nostre confessioni e le utilizzasse per un libro”, sostiene Falchi. “Non importa se non c’è il nome, è una questione di correttezza”. Anche Falchi è un ex di SharDna ma è andato via quasi subito e vive e lavora in Inghilterra da dodici anni: “Non ho nessun interesse personale, solo supportare queste comunità così deluse. Tante promesse, tante belle idee e poi la svendita… Non si sa nemmeno per cosa verranno utilizzati i campioni. In molti sono inviperiti, penso sia normale”. Più deluso ancora Pino Ledda, ricercatore che ha lavorato in prima linea proprio alla mappatura nei dieci paesi. Licenziato, rimasto senza stipendio, conosce bene i meccanismi: “Di certo è un’anomalia: il Parco con un proprietario da una parte, la nuova società dall’altra. In mezzo i donatori, sbalorditi. E noi che abbiamo messo professionalità e saperi al servizio di un progetto, inutilmente…”. Poi ci sono la rabbia delle opposizioni e le interpellanze politiche, ma ormai a cose fatte. E chiude: “L’ultima cosa che ci dovevano comprare è il patrimonio genetico”.