Chi sogna ancora i santi come persone perfette in mirabile dialogo con Dio rimarrà sconcertato. Perché oggi papa Francesco, invitando in piazza San Pietro tutti i fedeli a imitare Madre Teresa di Calcutta realizzando “quella Rivoluzione della Tenerezza iniziata da Gesù Cristo con il suo amore di predilezione ai piccoli”, ha proclamato santa una donna albanese, che per cinquant’anni della sua vita – e non prima di una sua “conversione” ma esattamente l’ultimo mezzo secolo della sua esistenza – non ha creduto in Dio, non lo ha trovato, scontrandosi soltanto con un enorme buio. Le sue ultime parole sul letto di morte non sono state qualche pia invocazione, ma un sospiro molto terrestre: “Non riesco a respirare”.
Madre Teresa di Calcutta, “mano tesa di Cristo” secondo l’efficace espressione di papa Bergoglio valida per lei e tutti i volontari che si spendono per il prossimo, è un personaggio molto più interessante dell’icona che è ormai diventata, scalfita in parte per l’opinione pubblica laica dall’essere stata coinvolta negli anni Novanta nella violenta battaglia ideologica della Chiesa cattolica contro il diritto di scelta delle donne di abortire.
Karol Wojtyla durante le innumerevoli beatificazioni e canonizzazioni del suo pontificato ha dato una virata all’immagine di “santo” del passato. Non più solo preti, vescovi e papi e qualche monaca eccezionale, oltre a singoli martiri. Dalla fabbrica di santi wojtyliana sono usciti personaggi di più varia estrazione, di tutte le culture, di tutti i paesi, laici e laiche compresi, semplici padri e madri di famiglia. Nella visione di Wojtyla non dovevano essere necessariamente figure straordinarie, ma testimoni reali del messaggio cristiano nella normalità della vita quotidiana. Santi non più in un’accezione clericale, ma modelli di comportamento inseriti in una società di massa, nel mondo globalizzato. In questo senso Giovanni Paolo II è stato molto moderno.
Madre Teresa di Calcutta, venerata da Wojtyla per il suo strenuo impegno a favore dei miserabili e non a caso scelta da Francesco per contrassegnare la fase culminante del suo Giubileo della Misericordia, costituisce un passo ancora più in là. Un salto. Proprio per il suo rapporto problematico con Dio. Agnese Gonxhe Bojaxhiu, nata a Skopje nel 1910 e morta all’età di ottantasette anni, ha attraversato tutto il Novecento, un secolo tutt’altro che breve, e oggi a vent’anni dalla sua scomparsa – con la giusta distanza data dal tempo – diventa uno stimolo di riflessione molto bergogliano: un personaggio, per la caratura della sua esistenza, di significativa rilevanza per il mondo contemporaneo e – per chi vuole riflettere – non solo per l’area dei credenti ma anche per i non credenti pensanti.
Il primo elemento di assoluta attualità è la sua scelta radicale di lasciare un lavoro tranquillo di insegnante in una scuola frequentata da alunni di ceto medio per impegnarsi irrevocabilmente dalla parte dei “più poveri dei poveri”. I dannati della terra, si sarebbe detto nel linguaggio politico degli anni Sessanta-Settanta. E a questa scelta di campo va aggiunta la decisione di dedicarsi ai derelitti “morenti”. Non sono più questioni da Terzo Mondo, non sono per niente problemi del secolo trascorso. Oggi la miseria – nel cuore stesso delle società apparentemente opulenti del Primo Mondo – e la morte nell’abbandono della solitudine sono diventati temi centrali della società contemporanea. Il personaggio storico di Teresa rappresenta con la sua scelta un indicatore prezioso dei drammi, che le élites politiche ed economiche contemporanee preferiscono rimuovere, e di fronte ai quali ogni contemporaneo è chiamato a prendere posizione: impegnarsi per superarli o chiudersi nella sfera individualista. Il tema su cui papa Francesco richiama con ostinazione uomini e donne del nostro tempo al di là delle frontiere confessionali o filosofiche.
Il secondo aspetto di attualità nella vita di Teresa è proprio il suo non trovare Dio. Nella sua corrispondenza privata si trovano frasi sconvolgenti per una futura santa: “Sento che Dio non è Dio … che non esiste veramente… Io chiamo, io mi aggrappo, io voglio, ma non c’è Alcuno che risponda. Nessuno, nessuno… Io non ho alcuna fede. Nessuna fede”. Interrogativi radicali tenuti nascosti per decenni. Perché qui non si tratta semplicemente, come preferiscono dire gli apologeti, di quel fenomeno che i teologi cattolici chiamano la “notte della fede”. Fenomeno che ha interessato più di un santo. Non è stata una notte di oscuramento temporaneo, una crisi passeggera. E’ stata al contrario una condizione che ha contrassegnato tutta la seconda parte della vita di Madre Teresa fino alla sua morte. Ha scritto padre Brian Kolodiejchuk, il postulatore ufficiale della sua causa di canonizzazione: “Non sentiva la presenza di Dio né nel suo cuore né nell’eucaristia”.
Se un santo (per la Chiesa cattolica) è un modello che ha qualcosa da dire alla società, Teresa è un pungolo alla riflessione sul problema-dio nell’era contemporanea. Ora che Dio non è più pensabile come l’Onnipotente con la grande barba, che decide i destini dell’umanità, che punisce con i terremoti, che premia evitando la grandine, ora che Dio – dopo Auschwitz – non è nemmeno immaginabile come portatore di una Provvidenza che ha una sua benefica finalità anche attraverso le sciagure, l’oscurità provata sistematicamente da Teresa tocca chiunque (credente o non credente) si ponga la domanda sull’esistenza o meno di un principio, che vada al di là del transeunte.
Il silenzio di Dio, l’inimmaginabilità di Dio e la domanda di Dio sono inestricabilmente intrecciati nell’epoca contemporanea per qualsiasi uomo o donna si ponga filosoficamente domande di fondo sull’esistenza – anche per respingere l’idea di una divinità.
Così Teresa, la donna che ha scelto come abito il sari indiano con il colore azzurro dei paria, la casta degli intoccabili reietti, la cristiana che non trova Dio, ma si prodiga per l’umanità derelitta, finisce per diventare un punto interrogante per molti. D’altronde papa Wojtyla proclamò “dottore della Chiesa”, cioè grande maestra dei fedeli, santa Teresa di Lysieux, che morì non credendo all’aldilà.
Le vie della Storia sono infinite.