La mostra del cinema di Venezia entra nel vivo e il concorso inizia a farsi incandescente con i primi nomi altisonanti che scendono in campo. Ancora una volta però a stupire pubblico e critica è un outsider alla sua opera seconda, Tom Ford, che dopo il buono, ma certamente non eccezionale A single man, confeziona un gioello di classe e raffinatezza purissima. Nocturnal animal, questo il titolo della sua ultima fatica, è un’operazione chirurgica realizzata ad opera d’arte tanta è la cura minuziosa dei dettagli incastonati nel racconto e la perizia registica con cui vengono messi in scena. Ford riesce nel compito proibitivo di portare sullo schermo la stuttura binaria e multitemporale della narrazione derivante dall’omonimo romanzo di partenza. Gli archi narrativi si accavallano in un crescendo implacabile di tensione e durezza fino all’esplosione di una vendetta che cova rabbiosa sottopelle. Lo straordinario immaginario visivo del regista statunitense, basato su uno spiccato gusto estetico e infarcito di citazioni e rimandi, tanto all’universo cinematografico quanto a quello artistico, si plasma alla perfezione intorno ad una storia ricca di suggestioni contrastanti e nell’alternanza di un montaggio calibratissimo si addensano sensazioni e sentimenti squisitamente umani. Un film sorprendente, portato in trionfo da un cast di attori sopraffini su cui spiccano, tra gli altri, una magnetica Amy Adams e un perentorio Michael Shannon.
Accoglienza calorosissima e grande commozione per Amy Adams e Jeremy Renner nella proiezione in Sala Grande di Arrival, di Denis Villeneuve. Il regista canadese, attualmente impegnato sul set di Blade Runner, conferma ancora una volta tutto il suo talento registico dimostrando una versatilità e un’ecletticità davvero non comuni. Questa volta si addentra nei meandri di una fantascienza minimalista che riflette sull’importanza della comunicazione nelle sue diverse forme, riuscendo ad amalgamare un impianto narrativo molto interessante con un apparato visivo stimolante, animato da momenti visionari e suggestivi. Probabilmente Arrival non raggiunge le vette artistiche dei suoi capolavori, ma è in grado di mostrare anche un lato emotivo ed intimista che fino a questo momento Villeneuve aveva tenuto gelosamente nascosto… il cuore non può far altro che ringraziare.
Grande tributo del pubblico anche per un gigante del cinema come Wim Wenders, che presenta il suo Les Beaux Jours d’Aranjuez. Lo straordinario autore tedesco sbarca al Lido con un’opera tutt’altro semplice, di una complessità e uno spessore che potrebbero spaventare ad un primo sguardo. Nonostante io personalmente non sia entrato completamente nel film, in virtù di un’impostazione prevalentemente teatrale e di una verbosità totalizzante, non posso non riconoscere una fortissima autorialità e un’idea di cinema che tende a tornare agli antichi fasti degli anni 70′ e 80′. Negli ultimi periodi infatti, ad eccezione dei meravigliosi documentari, Wenders sembrava aver perso la bussola e smarrito la via di un percorso che lo aveva portato nell’olimpo del cinema mondiale. Con questo film trova degli spunti di grande maestria tecnica e narrativa che probabilmente hanno bisogno di più tempo per decantare e poter essere apprezzati a pieno.
Tra sorprese e conferme non potevano mancare anche le prime delusioni. Purtroppo a farne le spese è Derek Cianfrance, che con Light between the oceans inciampa in un melodramma privo di guizzi e di personalità in cui neanche la coppia Fassbender-Vikander riesce a trovare l’alchimia che ci si aspetterebbe. Tutto risulta prevedibile e melenso; la scrittura procede stancamente accartocciandosi su se stessa in un insieme di situazioni patetiche e la convenzionalità di una regia poco ispirata contribuisce ad affossare il film nei cunicoli della noia. Un’occasione mancata purtroppo, viste anche le ottime cose che Cianfrance aveva mostrato in passato.
Altra nota dolente è stato sicuramente Il Cristo cieco di Christopher Murray, film davvero pretestuoso, in cui, fatta eccezione per qualche inquadratura particolarmente suggestiva, si avverte soltanto un’ aria ostentatamente autoriale che nasconde in realtà un vuoto incolmabile.
Anche la sezione fuori concorso procede a ritmo serrato e regala perle meravigliose come Il sensazionale thriller The age of shadows di Kim Jee woon. Il fenomenale regista sudcoreano, noto agli appassionati per film straordinari come I saw the devil e Bittersweet life, costruisce una narrazione potentissima intorno ad una regia sublime. Trovate visive e idee di messa in scena si rincorrono senza soluzione di continuità in un andamento teso e avvincente che esplode come una bomba ad orolegeria.
Ci sarebbero ancora molte cose interessanti da menzionare, come ad esempio lo sguardo antropologico potente e raggelante dell’ottimo documentario di Ulrich Seidl, Safari, ma voglio chiudere questo sguardo sommario sulla prima parte di Festival ponendo l’attenzione su uno degli eventi piú attesi e discussi di questa mostra: la presentazione dei primi due episodi della nuova seria di Paolo Sorrentino, The young pope.
Partivo con un pizzico di scetticismo dettato dalla mia poca predisposizione nei confonti della serialità, ma anche questa volta sono stato felice di ricredemi, perchè fino a questo momento Sorrentino è riuscito fare tutto e il suo contrario, liberando una creatività insaziabile in un pilot che se dovesse mantenere queste premesse potrebbe rivelare davvero un’operazione straordinariamente originale. Ironia e cinismo, bontà e cattiveria, luce e ombra, fragilità e supponenza, sogno e realtà; The young pope si muove nella fervida immaginazione del suo regista, tra una fantasia di scrittura e una compattezza registica davvero inusuali in relazione a tutto ciò che si potrebbe immaginare. La strada per trarre conclusioni definitive è ancora lunga ovviamente, ma se il buongiorno si vede dal mattino, questo inizio demolisce senza dubbio la diffidenza iniziale.
La mostra si appresta ad entrare nella seconda settimana e ad accogliere altri straordinari autori, con la speranza di vedere mantenute le grandi aspettative e, perché no, di continuare a sorprendersi.