È un voto di cambiamento quello che domenica ha sancito un rimpasto sostanziale del Legislative Council (Legco), l’organo legislativo monocamerale di Hong Kong; la prima chiamata alle urne dalle proteste democratiche del 2014, con un’affluenza del 58 percento, superiore al picco del 55,6 per cento registrato nel 2004.

Quattro veterani democratici si apprestano a lasciare il loro posto per far strada a giovani localisti fautori di un’autodeterminazione della regione amministrativa speciale. Tra i nuovi nomi compaiono il candidato indipendente Eddie Chu Hoi-dick, con 84mila preferenze nei Nuovi Territori occidentali, oltre a due altri moderati pro-democrazia: il giovanissimo Nathan Law Kwun-chung (23 anni), insieme a Joshua Wong tra i leader del movimento studentesco di Occupy Central, e Lau Siu-lai, docente della Polytechnic University. Grande successo anche per il neonato Youngspiration, che con la vittoria di Yau Wai-ching (25 anni) e Sixtus ‘Baggio’ Leung (30 anni) diventa il terzo partito dopo il Democratic Party e il Civic Party, mentre la debacle dei moderati di Third Side e Path of Democracy sembra confermare l’inarrestabile polarizzazione del Porto Profumato. Nel complesso l’opposizione ha conservato 19 dei 35 seggi nelle circoscrizioni geografiche, di cui tre finiti nelle mani dei localisti, e otto nella circoscrizione funzionale, soggetta al voto di un elettorato più piccolo, che si compone di organi e di persone provenienti da diversi settori funzionali.

Mentre alla vigilia delle elezioni l’emergere di nuove fazioni politiche indipendentiste aveva accresciuto i timori di una dispersione di voti a vantaggio del fronte filocinese, alla fine dello spoglio i democratici sono riusciti a mantenere un terzo dei seggi, assicurandosi la possibilità di esercitare il potere di veto nel Consiglio. Secondo gli analisti, se è improbabile che la presenza di filoindipendentisti si traduca in un ribaltone – mentre 40 delle 70 poltrone sono assegnate attraverso elezione diretta, 30 dipendono dal voto di gruppi d’interesse vicini a Pechino -, l’inaspettato numero di candidati scomodi sarà ugualmente all’origine di notevoli grattacapi per l’establishment cinese.

Negli scorsi mesi l’Electoral Affairs Commission aveva rigettato la candidatura di sei esponenti radicali – secondo fonti Reuters – dopo aver ricevuto disposizione direttamente dalla leadership di Xi Jinping, in allarme a causa dell’ampio consenso riscosso dai giovani politicanti, meno miti della vecchia generazione di pan-democratici. Proprio sulla terraferma, – oltre alla consueta “armonizzazione” dei social network – le legislative hongkonghesi sono state raccontate dalla stampa statale in una forma edulcorata che ha lasciato poco spazio ad analisi della crescente diversificazione del panorama politico locale, mentre i report apparsi sui media esteri risultano censurati persino nella città orientale di Hangzhou, dove in questi giorni sono confluiti i principali leader mondiale per prendere parte al primo G20 “made in China”.

Il risultato di domenica è di primaria importanza anche per il leader locale filocinese Leung Chun-ying, che rischia di vedere l’implementazione della propria agenda osteggiata dall’opposizione, ora rinverdita, e una propria conferma per un altro mandato quinquennale sempre più improbabile il prossimo marzo. Diversi oppositori politici hanno protestato fuori dai seggi, prendendo di mira Leung, al quale è stato scaraventato addosso un panino col tonno a simboleggiare le difficoltà economiche affrontate da molti nell’ex colonia britannica, dove il divario di ricchezza si sta ampliando vertiginosamente. Una questione già sollevata al tempo delle proteste di Occupy Central del 2014, quando l’ex colonia britannica si oppose alla riforma elettorale “farlocca” promossa da Pechino con la finta promessa di un suffragio universale alle votazioni del 2017 per l’elezione del chief executive.

Di Alessandra Colarizi

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