Cinema

Festival di Venezia 2016, Piuma di Roan Johnson un film che è come un mattoncino che non va né su né giù

Se qualche lancio d’agenzia ha voluto sottolineare lo scomposto atteggiamento di tre signori che a fine proiezione per la stampa hanno voluto apostrofare l’opera terza di Jonhson con un paio di “Vergogna” e qualche “buu” ululato, come dire: non c’era bisogno di tanta ignoranza verbale. Il film svolazza evanescente, purtroppo, là per aria da sola, senza il supporto degli stolti

di Davide Turrini

“Ho un mattoncino sulla schiena” che, aggiungiamo da spettatori del Lido, non va né su e né giù. L’accostamento di una battuta pronunciata dalla protagonista diciottenne, non proprio volontariamente incinta, di Piuma, film in Concorso a Venezia 73, con l’altrettanto celebre battuta di Ovosodo di Virzì l’abbiamo dovuta ricordare noi al regista, l’anglo-pisano Roan Johnson. Senza offesa, Piuma ci ha fatto però questo effetto qui del mattoncino.

Se qualche lancio d’agenzia ha voluto sottolineare lo scomposto atteggiamento di tre signori che a fine proiezione per la stampa hanno voluto apostrofare l’opera terza di Jonhson (I primi della lista, Fino qui tutto bene) con un paio di “Vergogna” e qualche “buu” ululato, come dire: non c’era bisogno di tanta ignoranza verbale. La Piuma del caro Roan svolazza evanescente, purtroppo, là per aria da sola, senza il supporto degli stolti. Viziati da come Johnson ci aveva trattato magnificamente con i primi suoi due film, gioielli di brillante comicità e allo stesso tempo lavori formalmente ineccepibili, di fronte a Piuma si rimane come delusi davanti alla pasticceria che sta abbassando la serranda dopo aver corso per mezza città per comprare la torta Sacher che fanno bene solo in quel posto.

I due protagonisti diciottenni, Ferro (Luigi Fedele) e Cate (Blu Yoshimi) aspettano un bimbo. Così in medias res, dentro un auto, con una barzellettina qualunque che fa il rumore di un gorgoglio fuori scena. Qualcosa del recente passato dei due trapela, comicamente, nella fuga continua da un presente insidioso e improbabile con lo zaino in spalla, col motorino, e anelando il viaggio in Marocco di lì a poche ore dopo aver dato la maturità: diventare genitori a 18 anni. Ma la sostanza è che la costruzione drammaturgica di Piuma, sulla falsariga dell’amara attesa di un cambiamento nella vita degli eterni studenti universitari protagonisti di Fin qui tutto bene, rimane idea, pensiero, spunto, paura recondita, lontana dallo schermo. Poi certo non sono solo i due ragazzini, nella loro anonima indistinguibilità tra il mucchio coetaneo, a non farsi cinema con la loro storia e i loro personaggi. È l’inadeguatezza a cascata che coinvolge gli altrettanto incasinati genitori di fronte alla nascitura ad implodere in una specie di scena madre di matrice seriale ripetuta di continuo: la stessa sequenza con le stesse parole, le stesse fratture tra protagonisti, le stesse battute comiche, la stessa tempistica nel farle, le stesse espressioni nell’esprimerle. Una su tutte la cosiddetta “bravura” del papà di Ferro, Franco (Sergio Pierattini) che bestemmia sempre allo stesso modo, qualsiasi cosa accada, come fosse un automa pronto più a far ridere che a “stare” con un ruolo e un’identità dentro la storia.

Piuma non evolve, non scatta, non torna indietro, non avanza. Titubante anche nello stile, Johnson, questa volta fatica anche a dare un ‘colore’ e un ‘respiro’ cromatico alla sua storia, perduta in una generica e anonima romanizzazione urbana. Ipotizziamo che il problema sia nel manico, nei (ben!) quattro sceneggiatori per una storia così esile e bisognosa di appigli “intimi” da sentire e trasmettere nella pancia dello spettatore; o ancora nel trasferimento di quella che Johnson definisce una sua “paura”, cioè quella di avere figli da 40enne (oggi ha un bimbo di due anni, Jacopo, ndr), nella generazione dei 18.

“Abbiamo voluto ribaltare l’idea di una generazione, quella di questi ragazzini di oggi, composta solo da fannulloni, sbandati che non sanno cosa fare”, spiega Johnson alla stampa. “Sul set, invece, eravamo noi quarantenni a fermarci e ad ascoltare spesso i loro consigli in fatto di amore e su come risolvere nelle battute o nelle scene i rapporti quotidiani tra loro. Il film non è un trattato sociologico ma un racconto di formazione che mostra due diciottenni alle prese con un mondo che sta cambiando”. Fedele alla tradizione di Monicelli e Virzì con i personaggi catapultati sempre in un posto sbagliato, Johnson ne ha da dire anche per il Fertility day: “Il film lo giudicherete voi guardandolo, quello che c’è da capire è lì. Voglio però sottolineare che Ferro sarà un cazzaro, che non sa niente di maternità, ma sa benissimo che deve rimanere a fianco di Cate. La sua maturità è quella di capire che la scelta di avere un figlio è prima di tutto una scelta della donna. Concetto che evidentemente sfugge a molti politici nostrani”. Distribuisce Lucky Red dal 20 ottobre 2016.

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