Non me ne vorrà Agnese, da lassù, per questa piccola provocazione. La vecchiaia le aveva donato un viso che superava identità sessuale ed etnico-culturale. Poteva essere orientale, europea, una signora molisana o un contadino albanese. E anche le case di accoglienza delle suore sono così, accolgono qualsiasi essere, “non esiste né giudeo, né greco” diceva san Paolo.
Ho fatto servizio anni fa presso le suore di Madre Teresa, al Celio e al dono di Maria in Vaticano. Erano strutture attraversate da variopinti convogli di disperazione: trans picchiati a sangue, preti ciechi e alcolisti, ex detenuti psicotici, marginalità estreme e di qualsiasi tipo, accolte sempre con lo stesso sorriso. Agli occhi della santa e delle sue sorelle erano tutti moribondi come quelli di Calcutta.
E siamo tutti moribondi. Perché lo sguardo di questa mini-albanese era capace di guardare dentro. Personalmente l’ho incontrata un paio di volte nei suoi conventi durante il servizio quotidiano e posso testimoniarlo, proferiva le stesse frasi dei suoi libri, a volte di profonda ovvietà, ma con una forza sovrumana. Perché erano parole sincere, Madre Teresa si sentiva davvero la prima disperata della terra, abbandonata da Dio e dagli uomini, come ci sentiamo tutti ogni tanto, lei invece moriva ogni giorno perdendosi in Cristo.
Paolo Villaggio diceva che aveva lo sguardo cattivo. Ma se si legge il suo diario, purtroppo edulcorato dal suo postulatore, se ne comprende la provenienza: erano occhi rossi che sbucavano dal buio ogni giorno, per cercare la luce. E’ il ritratto di una santa mistica, come San Giovanni della Croce e allo stesso tempo di un’apostola della carità. E le sue case sono identiche, o meglio prive di identicità, a ogni latitudine, pronte ad accogliere esseri di qualsiasi status e credo, con l’unica caratterizzazione in uno spazio bianco e vuoto: l’ostia consacrata nella cappella dell’adorazione. Questi elementi di de-individualizzazione culturale e la sua ambivalenza vocazionale ne fanno una santa per i prossimi tempi disperati, dove la povertà, anche identitaria, diventa segno di nuovi confini e di una nuova fede che abbraccia tutto l’umano.