In fondo è sempre stato così, è tutta una questione di prospettive. Siete nati e cresciuti con lo spirito mod. Per voi Paul Weller non è un essere catalogabile nel genere umano, ma è una sorta di divinità, un culto vero, di quelli dogmatici nei confronti dei quali, quindi, non ci sono domande da porsi, lo si accetta nella sua interezza, scarpe col tacco comprese. Non a caso lo avete sempre considerato per quel che è, the ModFather. Comprensibile, quindi, che dopo di lui abbiate visto un declino. Una discesa anche piuttosto ripida che vi ha spinto dentro un abisso dal quale, lo sapete, non c’è possibilità di fuga.
Tutto è iniziato col Brit-Pop, perché per quanto Damon Albarn sia un artista eclettico e geniale, e i fratelli Gallagher gente con la quale vorreste passare un weekend all’Oktober Fest, una storia vera non c’è mai stata. Avete seguito anche le derive, quelle che andavano sempre più tingendosi di colori pastello, che si trattasse sempre di Manchester o ancora di Glasgow. Non c’erano Alex Turner o Yannis Philippakis che tenessero: il distacco dalla matrice era tale da lasciare sgomenti. Al punto che, col passare degli anni, i primi timidi (si fa per dire) cloni sono apparsi anche apprezzabili, non fosse altro perché, come tutto quello che è buono e che fa decisamente male alla salute, invecchiando miglioravano.
Così, specie dopo la fine delgi Oasis, sempre che siano davvero finiti, i fratelli Gallagher sono entrati nella lista degli artisti che avete ‘attenzionato’. Insomma, da cosa potrebbe anche nascere cosa, vi siete detti. Questo fino a ieri. Quando sul palco del Festival No 6 di Portmerion, nel Regno Unito, lui, the ModFather è salito sul palco per fare visita a Noel, impartendo quella che a molti è suonata, legittimamente, come una benedizione.
Due lei canzoni che Weller e Noel hanno eseguito insieme, entrambe provenienti dritte dritte dal repertorio dei Jam, quindi della prima band del nostro, precedente agli Style Council e alla carriera solista. Prima Prett Green, datata 1980, estratta dall’album Sound Affects, poi Town Called Malice, del 1982, direttamente da The Gift. Entrambi hanno imbracciato la chitarra, coperta di Linus di Noel, e hanno suonato quel che c’era da suonare, poi i saluti di rito e via, verso nuove avventure.
Ora, oggi va di moda parlare di come il rock sia morto, di come il futuro sarà qualcosa a base di suoni fatti col computer, perché i giovani non sanno neanche cosa sia una chitarra, non sanno cosa sia, appunto, il rock’n’roll, inteso come suono ma anche come spirito. Perché se anche è vero che oggi tutta la musica sta lì, nel nostro smartphone, a distanza di un click, è anche vero che proprio in virtù del linguaggio imposto dagli smartphone e dal loro utilizzo, la soglia di attenzione si è talmente assottigliata da impedire quasi a chiunque di approfondire, di appassionarsi a qualcosa che duri di più di due minuti, di ricercare. Tutto vero, ci mancherebbe altro. Siamo nel 2016 e Garrix riempie gli stadi, ma finché vedremo e sentiremo questa musica, un po’ come in certi film apocalittici in cui alla fine gli uomini vincono sempre, una speranza resta. Lunga vita al rock, lunga vita a Paul Weller.