Mentre le autorità egiziane continuano a temporeggiare e a non dare risposte sui colpevoli della morte di Giulio Regeni, le sparizioni forzate restano un fenomeno ampiamente diffuso nella dittatura dell’ex generale Abdel Fattah El Sisi. Così il lavoro degli attivisti si è spinto sino all’utilizzo della tecnologia e l’Egyptian Commission for Rigths and Freedom (Ecrf) ha creato una applicazione Android, Io Proteggo, che permette a tutti gli utenti egiziani di segnalare immediatamente il proprio fermo da parte delle forze di sicurezza. L’applicazione invia automaticamente agli avvocati dell’Ecfr – l’organizzazione che rappresenta legalmente la famiglia di Regeni – il luogo di detenzione per attivare immediatamente l’assistenza legale.
“Una volta inserite le impostazioni, la app assume l’interfaccia di una semplice calcolatrice”, spiega sotto anonimato il creatore dell’applicazione al quotidiano The Guardian. “Solo l’utente può usarla attraverso parole chiave segrete”. Un’applicazione simile era già stata utilizzata per segnalare i fermi durante le manifestazioni nel 2013. Sono in arresto permetteva, infatti, di stilare una lista di contatti di emergenza a cui era possibile mandare con un semplice click un messaggio d’aiuto con le coordinate satellitari del commissariato di polizia.
Il presidente di Ecfr, Ahmed Abdallah, è in carcere dal 25 aprile scorso dopo essere stato arrestato dalla polizia durante una manifestazione contro la cessione delle isole di Tiran e Sanafir.
Sabato scorso la magistratura egiziana aveva disposto il rilascio su cauzione dell’attivista ma la procura del Cairo ha fatto ricorso ottenendo il rinnovo della detenzione per altri 45 giorni.
“Siamo perennemente sotto minaccia semplicemente perché ci occupiamo di diritti umani e al momento è una delle attività più pericolose in Egitto”, dice a ilfattoquotidiano.it Halim Hanis, legale di Ahmed Abdallah e membro dell’Efcr.
“Quello che sappiamo dalla nostra esperienza è che spesso le accuse contro le forze dell’ordine portano a delle detenzioni arbitrarie e a processi farsa. Per questo sapere immediatamente se una persona viene arrestata ci permette di intervenire subito e di provare a ottenere una scarcerazione su cauzione”. Un altro pericoloso fattore che complica il lavoro degli avvocati sono i luoghi di detenzione informali o le prigioni che non sono di competenza del Ministero degli Interni. Per esempio le sedi dei servizi segreti, i cosiddetti mukhabarat, o le prigioni militari.
Nel giugno del 2014 un’inchiesta del Guardian svelò l’esistenza di centro di detenzione all’interno del carcere militare di Azouli, località a pochi chilometri dalla cittadina di Ismailia. Dalla fine del 2013 centinaia di desaparecidos, oppositori di Sisi prevalentemente islamisti e salafiti, sono stati portati in questo centro al di fuori della giurisdizione civile e torturati con metodi brutali.
Secondo un report pubblicato da Amnesty International lo scorso luglio le sparizioni forzate sono in costante aumento. Il caso Regeni resta, infatti, solo la punta dell’iceberg – dice l’organizzazione – e molti sarebbero detenuti al Ministero degli Interni a pochi passi da Piazza Tahrir.
I 17 casi censiti raccontano spesso delle dinamiche di arresto simili: agenti in borghese supportati da membri delle forze speciali prelevano i dissidenti per la strada o nelle loro case. I fermati vengono poi incappucciati e portati nei luoghi di detenzione.
Secondo Amnesty, il fenomeno è ulteriormente cresciuto dopo la nomina di Magdy Abd el-Ghaffar a capo del Ministro degli Interni. El Ghaffar, in carica da marzo 2015, è un ex membro dei servizi segreti dell’era Mubarak, apparati già ben noti agli attivisti per i diritti umani per i brutali metodi di tortura utilizzati contro i dissidenti. Lo stesso ministro, a un anno dalla sua nomina, aveva dichiarato all’agenzia egiziana Mena che il suo dicastero sinora “non aveva registrato nessun caso di sparizione e che il termine ‘detenuto’ non è più utilizzato nei casi legali dopo la revoca della legge d’emergenza”.
Di tutt’altra opinione è Philip Luther, direttore di Amnesty International per il Medio Oriente e il Nord Africa. “Le sparizioni forzate sono diventate un elemento chiave della politica repressiva del regime”, ha dichiarato in un comunicato lo scorso luglio. “Chiunque voglia esporsi a livello politico è a rischio perché la strategia della sicurezza in chiave antiterroristica è un pretesto per rapire, interrogare e torturare le persone che sfidano le autorità”.