Il titolo è l’essenza, racchiude in poche parole il senso di un intero lavoro. Perciò va deciso per ultimo. Quando tutto è già stato detto e tutto è già stato fatto. Eppure in questo caso sembra sia andata al contrario. Fertility day. Un nome che tradisce la volontà (culturale? Politica?) di escludere anziché includere. L’imposizione di una verità incredibilmente privata come tema collettivo che taglia fuori tutti, indistintamente.
Esclude chi un figlio lo ha già avuto ma non riesce, non vuole, non se la sente di fare il secondo (il rinvio alla maternità porta al figlio unico. Se arriva.) con tanto di minaccia punitiva: se arriva.
Esclude chi un figlio non riesce ad averlo, e nel non tenere conto dell’immensa sofferenza e senso di inadeguatezza che si cela dietro quel fallimento ha il potere anche di far sentire quegli uomini e quelle donne non utili, non contribuenti al bene comune.
Esclude chi un figlio lo vorrebbe ma la legge italiana non glielo consente, gli omosessuali, la cui fertilità sembra non interessare al nostro Stato (tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri).
Esclude chi un figlio lo vorrebbe ma non ha un lavoro, non ha una casa, vive ancora con i propri genitori, ha contratti precari che garantiscono gravidanze a stipendio zero e zero garanzie di un lavoro domani.
Esclude chi un figlio lo vorrebbe ma non ha trovato un compagno, magari se è una donna pensa anche che un figlio lo farebbe da sola con la fecondazione ma, che disdetta, in Italia non è permesso.
E infine esclude chi semplicemente un figlio non lo desidera, e accidenti a lui se ne ha diritto e non deve certo spiegare a noi perché non lo desidera. Né tantomeno sentirsi sbagliato per questo.
E poi davvero la fertilità è un bene comune? Come l’acqua? La fertilità è un bene privato, privatissimo. I bambini sì, loro sono davvero un bene comune, ma lo sono i bambini di tutti allora, quelli nati per fecondazione spontanea, quelli per inseminazione artificiale, lo sono i figli dei migranti e quelli degli omosessuali, lo sono i bambini abbandonati e quelli adottati. Sono come l’acqua per i campi. Chiunque di noi si occupi di loro contribuisce al bene comune, sia che abbia procreato sia che non lo abbia fatto.
Mi chiedo se ci sia, in questa iniziativa, la minima comprensione del dolore. Del dolore mio, che non sono riuscita ad avere figli con Fabio, del dolore di madri e padri che nel reparto dove lavoro hanno perso i propri bambini. Del dolore per le aspettative disattese. Le aspettative disattese nostre, dei nostri genitori, della società che ancora una volta, ancora oggi con questa campagna, ha il potere di farci sentire inetti alla vita. Del dolore per la consapevolezza che la vita, a volte, semplicemente non va come vorremmo.
L’impudenza di indire questa giornata nella quale si pretende di parlare di procreazione medicalmente assistita mentre è ancora fresco l’inchiostro della penna che apre finalmente all’eterologa nel nostro Paese dopo anni di umiliazioni e viaggi della speranza all’estero è quantomeno imbarazzante.
Sono certa di poter dire cosa significhi aspettare fuori dalla porta con dolcezza mentre tuo marito deve raccogliere lo sperma per farlo analizzare. Cosa significhi quella porta che si apre e quello sguardo, lo sguardo del tuo compagno, che vorrebbe essere ovunque ma non lì, che vorrebbe far sparire con un gesto della mano tutto quel mostruoso senso di inadeguatezza. So bene cosa significhi impegnarsi insieme, ogni giorno, per mantenere il piacere sessuale separato dal problema dell’infertilità. Perché almeno il piacere, che diamine.
E penso a uno degli slogan di questa campagna, la fertilità maschile è molto più vulnerabile di quanto non sembri, nella foto una buccia di banana abbandonata su un marciapiede. Io e Fabio ci siamo guardati stupefatti ripensando ciascuno al proprio carico di memorie, di cui il ministero non sembra sapere né immaginare nulla: inaccettabile essere capaci di una tale prosaicità. Perché mai rischiare, anche solo rischiare dico, di sovrapporre il problema della fertilità maschile con quello della potenza sessuale? Una ingenuità imperdonabile.
Sorrido nell’aprire ogni tanto il sito di questo Fertility Day. E trovare ogni volta che qualcosa è stato tolto, aggiustato, sistemato. Bene. Ci sono riferimenti a fattori di rischio, diagnostica, percorsi per affrontare l’infertilità. Bene. Se solo il contenuto avesse vinto sul contenitore. Se solo quelle cartoline non fossero state fatte. Se solo non fossimo stati tutti sottovalutati nelle nostre capacità di comprensione, empatia, intelligenza. Se solo il titolo fosse davvero venuto fuori per ultimo.
Prima giornata nazionale contro l’infertilità di coppia.
Sarebbe stata una giornata inclusiva, non escludente. La giornata in cui lo Stato decide di schierarsi con i suoi cittadini, non contro. Sarebbe stata una giornata di accoglienza di una sofferenza privata come tema di interesse collettivo. Tutto il contrario di quello che è ora. E dentro vi avrebbero trovato posto tutti. Chi non riesce ad avere figli ma si vergogna, chi un figlio l’ha perso e non sa come fare ad averne un altro, chi ha una infertilità di coppia perché formata da membri dello stesso sesso, chi tutti i giorni lavora e studia e compie ricerche per tutti noi, chi di figli ne ha e che proprio per questo vorrebbe essere solidale e magari imparare a donare il proprio sperma, di cui le nostre banche ancora sono carenti.
Un luogo inclusivo di possibile condivisione di un dolore. Perché quello dei figli, nella vita, è davvero l’unico dolore condiviso possibile, attorno al quale aggregarsi e farsi comunità. Questa condivisione mi aspetterei da uno Stato che ha l’ardire di chiedermi figli. Non la separazione in individui che devono donare qualcosa alla Patria, pena lo stigma sociale.