E se prima di vederlo ci si aspettava un lavoro convenzionale, qualcosa di prettamente televisivo, con interviste fronte macchina di alcuni giovani condannati per gli omicidi dalla “paranza”, ecco invece che Robinù stupisce e si presenta come un film complesso e stratificato, discorso cinematografico senza mezzi termini
“Per morire bastano tre secondi, anzi uno. Allora se devi morire tu, meglio che muoiano gli altri”. La voce arriva dallo sprofondo di Poggioreale. È la filosofia, il senso del quotidiano, di uno dei ragazzini che hanno fatto parte, e continuano a farlo, se non sono già finiti in galera, della “paranza dei bambini”. Orde di adolescenti armati che su motorini truccati terrorizzano il centro di Napoli, sparando e uccidendo, ripristinando la legalità della camorra tra le strade di Forcella. Là dove Sofia Loren vendeva sigarette di contrabbando e si faceva mettere incinta dieci, quindici, venti volte da Mastroianni per non andare in prigione in Ieri, oggi e domani di Vittorio De Sica. Tra le stradine irregolari, porfido a vista, panni stesi che collegano per pochi metri una finestra a quella del dirimpettaio, è piombata la macchina da presa di Michele Santoro, regista del documentario Robinù. Assieme al nuovo film di James Franco tratto da John Steinbeck, e L’Estate Addosso di Gabriele Muccino tra i titoli di punta della sezione Cinema del Giardino a Venezia 73.
E se prima di vederlo ci si aspettava un lavoro convenzionale, qualcosa di prettamente televisivo, con interviste fronte macchina di alcuni giovani condannati per gli omicidi dalla “paranza”, ecco invece che Robinù stupisce e si presenta come un film complesso e stratificato, discorso cinematografico senza mezzi termini dove le “testimonianze”, tra gli altri, di Mariano e Michelino – nemmeno 40 anni in due e 16 a testa come condanna per reclusione per concorso in omicidio, lesioni e rapine, ecc… – diventano una sorta di pretesto di cronaca giudiziaria per entrare invece all’interno di quello spazio urbano letteralmente impenetrabile, dopo decenni di programmi politici e azioni di polizia, che corre dai Decumani ai Tribunali, fino a Porta Capuana.
La macchina da presa incalza i parenti dei carcerati, madri, padri, fratelli finiti a Parigi a fare i pizzaioli, giovanissime (e belle) mogli ex spacciatrici con figli a carico, ora magari diventate donne di un nuovo potente e giovane boss. Ma ci sono anche le omelie dei preti contro l’omertà di chi non denuncia il crimine, la trans che con santino della madonna e vibratore sul comodino, 300 euro ogni due ore, mette in cima alla classifica dei clienti il boss della camorra di cui non fa ovviamente il nome. Ecco allora che il documentario di Santoro, prodotto da Zerostudio’s e Videa Next Station, sorprende per compattezza narrativa e omogeneità drammaturgica, visione di un reale doloroso e magmatico dove le pallottole vaganti disegnano traiettorie mortali nei video in bianco e nero a circuito chiuso, e subito dopo si balla al ritmo di Mo’ so libero di Enzo Caradonna come fossimo nel Belluscone di Maresco. Michele, Mariano e gli altri, nemmeno un anno di scuola, quattro parole di italiano in croce sostituite da un dialetto schietto e sfuggente, sono la parte ‘passiva’ della trama di Robinù. La loro ancora cortissima vita già destinata al carcere, alcuni direttamente in quello minorile, fa il paio con quel “fuori”, altrettanto irrequieto, irregolare, e irriducibile, tra parcheggi abusivi, coca da spacciare e lacrime per la prole incarcerata. All’origine del male, che presto diventerà un libro di Saviano, per la “paranza dei bambini” contano il clan Sibillo e gli eredi del clan del boss Giuliano.
La foga di diventare “capi”, di salire la piramide del crimine già a 12-13 anni, l’ascesa al potere che passa da un kalashnikov da 33 colpi che “tenerlo tra le braccia è come tenere Belen” sono invece gli aspetti antropologico/motivazionali che vengono sbattuti in faccia allo spettatore. E Robinù, lontano da qualsivoglia idealizzazione dei protagonisti o spettacolarizzazione delle figure oltre o al limite della legge, sembra come dipingere la sovraesposizione al crimine nella sua naturale normalità quotidiana, tra vigili che multano auto in sosta, il sangue di San Gennaro che si liquefà nell’ennesimo miracolo, e una discussione su come si preparano le palline di coca mentre si parla di Maria De Filippi o si vede un frame de Il Grande Fratello. Infine, quei ragazzetti, forse vicini, forse lontani dal diventare “baby boss”, giubbotti alla moda, teste rasate cool sulle tempie, canna da fumare adagiata sull’orecchio, smartphone con sul desktop una foto dove tirano una ‘riga’, non sembrano poi così diversi dai coetanei che bighellonano sotto casa in un quartiere sovrappopolato di una qualsiasi altra grande città italiana.