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Venezia, applausi per Robinù di Santoro: “A Napoli abbiamo imparato una lezione molto pasoliniana”

Volevamo filmare in modo freddo e distaccato, ma di fronte a noi abbiamo trovato ragazzi che a 15-16 anni hanno avuto il primo figlio e a 35 erano già nonni. Una realtà che - dice il giornalista - ci ha sorpreso nella sua passione vera per la vita, speculare alla morte provocata, che noi non sappiamo più nutrire, Così la nostra scelta formale gelida ha finito per riscaldarsi”

di Davide Turrini

“I baby boss della camorra a Forcella hanno una passione vera per la vita che noi non sappiamo più nutrire”. È il Michele Santoro che non ti aspetti quello apparso a Venezia 73. Non parliamo dei sandali francescani esibiti sotto il completo nero con camicia bianca d’ordinanza tv durante la conferenza stampa ufficiale, ma del suo approccio provocatorio, libero e umanista ad un tema tragico e scottante come quello della “paranza dei bambini”, fenomeno criminale al centro della sua prima opera da regista cinematografico. Robinù, sezione ‘Cinema del Giardino’ al Lido, ha fatto strabuzzare gli occhi a diversi critici per la sorpresa e messo d’accordo il pubblico che fin dalla prima proiezione l’ha applaudito. C’è un racconto dal respiro cinematografico in questo documentario scritto con Maddalena Oliva e Micaela Farrocco, prodotto da Zerostudio’s, e distribuito da metà ottobre 2016 grazie a Videa.

La storia di una giovanissima generazione di camorristi minorenni, perlopiù molti di loro già finiti dietro le sbarre, che ha richiesto un approccio formale differente rispetto ai reportage televisivi a cui l’autore di Servizio Pubblico ci ha abituati per oltre vent’anni. “Siamo partiti da una grande notizia dimenticata”, ha spiegato Santoro dal Lido di Venezia. “Ogni volta che si parla del fenomeno della “paranza dei bambini” (lotta scatenata nei vicoli di Napoli, per il controllo del territorio e portata avanti dai 16-17enni che combattono per difendere il loro territorio dalle aggressioni delle bande esterne ndr) si dice che quella non è Napoli, non è l’Italia. Eppure andando lì e filmando questo contatto empatico tra quartiere e carcere, che è come una sorta di continuità urbanistica, abbiamo imparato una lezione molto pasoliniana proveniente dalla carne delle persone. Volevamo filmare in modo freddo e distaccato, ma di fronte a noi abbiamo trovato ragazzi che a 15-16 anni hanno avuto il primo figlio e a 35 erano già nonni. Una realtà che ci ha sorpreso nella sua passione vera per la vita, speculare alla morte provocata, che noi non sappiamo più nutrire, Così la nostra scelta formale gelida ha finito per riscaldarsi”.

“Gli italiani hanno un’unica grande metropoli europea che ha ancora un’anima popolare, quando altre città sono ridotte a bed and breakfast per turisti di passaggio. Parliamo delle migliaia e migliaia di persone che vivono nel centro storico di Napoli”, ha affermato il conduttore tv. “Lì i ragazzini che poi delinquono invece di andare a scuola spacciano. Allora mi chiedo: come fa lo stato italiano a sopportare programmaticamente l’evasione dell’obbligo scolastico? Ditemi voi se non è complicità questa. Dopo aver visto una mia trasmissione tv su Palma di Montichiari, Norberto Bobbio scrisse su La Stampa: ‘Se il tricolore non sventola su Palma, non sventola sull’intero paese’. È come se il nostro Stato dicesse: meglio che questi ragazzi stiano fuori da scuola e si ammazzino tra loro, e che quelle mogli spacciatrici continuino a fare quello che hanno sempre fatto. Eduardo De Filippo, l’unica grande personalità ad occuparsi dei minori napoletani in carcere, quando li incontrava piangeva, sentiva il rimorso per ciò che noi non facciamo. Spero che questo documentario faccia sentire un po’ di rimorso in chi lo vede rispetto alle azioni che non ha voluto compiere”. Un’accusa che Santoro specifica non rivolta alle forze di polizia, che anzi “compiono un gran lavoro in quei luoghi”, mentre qui siamo di fronte “allo Stato italiano in generale che abdica, che si dimostra assente. Che facciamo allora bombardiamo Forcella? Meglio non fare niente. E a chi mi accusa di essere indulgente e assolutorio di fronte a queste persone rispondo che credo nella nostra Costituzione quindi al carcere come luogo di recupero”.

“I protagonisti di Robinù pensano che fare carriera nella criminalità sia un fatto normale – continua il regista – tanto che nel film paragonano l’avanzamento di grado nelle forze dell’ordine con quella delle gang. Attratti dal fascino militare ed espulsi dalla scuola, si sentono inadeguati culturalmente, ma più bravi di altri sul piano fisico, del coraggio, e nell’uso delle armi. È chiaro che vanno puniti, ma sono minorenni, la responsabilità da esercitare è diversa. Dopo la punizione ci deve essere il recupero”.

Sicura del valore del Santoro cineasta, è Cinzia Monteverdi, produttrice del film con Zerostudio’s e amministratrice delegata del Fatto Quotidiano: “Michele ha sempre avuto questo desiderio di fare un film. Nel tempo ha mostrato di non essere solo un conduttore, ma di possedere  le capacità di lavorare sul livello della costruzione narrativa nei suoi programmi, come nella fase di montaggio. Cosa ci ha convinto di questo lavoro? Il fatto di mostrare un mondo dimenticato dallo Stato, che è poi il filo conduttore del nostro giornale: indagare e denunciare nel nostro paese dove lo Stato manca”.

C’è infine spazio per una polemica che si rinnova con la vecchia mamma Rai che Santoro lo partorì per poi espellerlo con il celeberrimo “editto bulgaro”: “Di forme del documentario ne conosciamo mille: il realismo magico, quello crudo ed integrale, esempi affermati e premiati come Fuocammare di Rosi. Soffriamo però della mancanza di un editore per raccontare questa realtà. E questo grande assente è la Rai. Il nuovo gruppo dirigente è sì sensibile e colto, ma si piega al racconto di un reale ordinato e ispirato ai buoni sentimenti. Non c’è un atto coraggioso, una scelta politica nel rapportarsi alla realtà. E questo è un male”.

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