Cinema

Festival di Venezia 2016, tornano “I Magnifici Sette” ma sono un po’ più colored. Al posto di Brinner c’è Denzel Washington

La pellicola di Antoine Fuqua fuori concorso. "Di solito io giro film più action, mentre qui ho voluto creare qualcosa di più classico, un western dai grandi spazi, un po’ come quelli mai visti, sognati e riprodotti da Sergio Leone. Il protagonista: "E' una rappresentazione più onesta del West di allora: bianchi e non vivevano insieme con più uguaglianza di quanto accadeva al sud"

di Davide Turrini

Ci sono un nero, un messicano, un pellerossa, un asiatico… I Magnifici Sette, versione Antoine Fuqua, evento speciale Fuori Concorso a chiudere Venezia 73, parte da qui. La tavolozza multietnica dei “sette samurai” giustizieri, del remake targato MGM/Columbia, sostituisce i sette cowboy bianchi del film di John Sturges datato 1960. Il mito fondativo della conquista del West, con annessa libertà individuale e spazio da vivere per tutti, ha nel 2016 mille facce “colored” oltre quelle del pioniere sbevazzone e violento proveniente dall’Europa. Girarci attorno sarebbe come aver visto un altro film. Se facessimo spoiler sul finale poi, identico nel numero di sopravvissuti come in Sturges, noteremmo ancor di più la differenza. Per non dire della star pilastro centrale del racconto: Denzel Washington al posto di Yul Brinner.

Poi certo non siamo in Posse di Mario Van Peebles, ma il messaggio è chiaro. Lo spiega proprio Denzel Washington, t-shirt nera quasi in continuazione cromatica con l’abbigliamento del film, dal cappello agli stivali, passando per i baffi, superstar al Lido per accompagnare il film: “Questo Magnifici Sette riflette molto di più il mondo del 1879 in cui è ambientato. È una rappresentazione più onesta di quella che era la società allora nel West. Uomini e donne, bianchi e non, vivevano insieme in un certo senso con maggiore uguaglianza rispetto a quella che nello stesso periodo c’era, ad esempio, nel Sud degli Stati Uniti”.

Set un po’ più a Ovest per Fuqua, villaggio di vessati non più composto da messicani scalzi, ma cittadina di frontiera tradizionale, saloon, hotel e chiesetta con assi di legno. Farmer bianchi schiacciati dal giogo del ricco mister Bogue (Peter Sarsgaard), farneticante proprietario di miniere che mescola democrazia/capitalismo e Dio, si compra l’accondiscendenza dello sceriffo e uccide alle spalle chi, disarmato, si ribella alle sue paghe da fame o all’offerta di acquisto della terra per pochi spiccioli. La ribellione è donna (Haley Bennett) e a Sam Chisolm (Denzel Washington), infallibile con la pistola e “ufficiale delegato” di contee e stati per rintracciare e uccidere fuorilegge, non resta che accettare l’offerta della ragazza più intraprendente di Rose Creek tesa a contrastare la violenza di Bogue e dei suoi molti scagnozzi. Chisolm arruola così sette tizi che sanno usare bene fucile, pugnali, asce, arco e frecce: il pellerossa Red Harvest (Martin Sensmeier); il tentennante Goodnight Robicheaux (Ethan Hawke), l’abile con revolver e carte Farraday, interpretato dal Chris Pratt di Jurassic World; il messicano Vasquez (Manuel Garcia-Rulfo), l’asiatico Billy Rocks (l’attore sudcoreano Byung-hun Lee) e Jack Horne, enorme folle predicatore che combatte a mani nude, ed è impersonato dal Vincent D’Onofrio “palla di lardo” di Kubrick.

Incentrato molto sulla dettagliata costruzione di coreografate sequenze d’azione (marchio di fabbrica di Fuqua, ricordiamoci Training Day), I Magnifici Sette, poca epica del racconto e molta tecnica di ripresa, sembra difettare un po’ a livello drammaturgico sia in una caratterizzazione dei personaggi tendenzialmente superficiale ed opaca, ma soprattutto per quel senso di sacrificio di cui dovrebbero essere imbevuti i sette giustizieri, principio ispiratore tratto da Akira Kurosawa regista de I sette samurai che si sbandiera come faro. “Il dna del mio film è quello”, racconta Fuqua alla stampa. “Adoro l’opera di Kurosawa e da lì sono partito per raccontare la storia di sette tizi che si mettono insieme per un obiettivo comune: servire e proteggere persone indifese. Una dinamica sempre presente, anche oggi con il terrorismo”. Oltre al maestro giapponese, Fuqua non dimentica l’altro nume tutelare del film, riferimento per il disegno e la costruzione di questa frontiera: “Sergio Leone è stata una grande fonte d’ispirazione formale per me. Ha riscritto il western che Hollywood aveva creato ribaltando certezze come la divisione netta tra buoni e cattivi soprattutto nella rappresentazione visiva sullo schermo”, prosegue Fuqua. “Di solito io giro film più action, mentre qui ho voluto creare qualcosa di più classico, un western dai grandi spazi, un po’ come quelli mai visti, sognati e riprodotti proprio da Leone”.

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