Su un campo bianco il corsivo blu incide la parola “America”. Da uno sfondo rosso emergono parole d’ordine vergate in maiuscolo, “Libertà e giustizia per tutti”; “Indivisibile dal 1776”. In un trionfo del cromatismo a stelle e strisce, tra motti in latino (E pluribus unum) e citazioni di un vecchio adagio folk cantato nel secolo scorso da Woodie Guthrie, si consuma la celebrazione degli Stati Uniti. Non si tratta dell’ultimo spot elettorale della campagna presidenziale giunta agli sgoccioli, bensì della nuova veste grafica di una delle birre più bevute oltreoceano. Gli strateghi della comunicazione di casa Budweiser hanno trasformato dal maggio scorso la lattina del “King of the beers”, per accompagnare quella che il vicepresidente del marchio, Ricardo Marques, identifica come “l’estate più patriottica che questa generazione abbia mai visto”. I giochi olimpici e paraolimpici, il torneo calcistico della Copa America, fino all’epilogo autunnale delle elezioni per decretare il nuovo inquilino della Casa Bianca: la nuova lattina della Budweiser, prontamente ribattezzata “America”, campeggia sugli scaffali dei supermercati e nei frigoriferi dei bar in un tripudio di amor patrio.
Un passo indietro per spiegare i protagonisti. Budweiser, spesso accorciata in Bud, è la più diffusa delle lager mainstream negli Stati Uniti: birre inoffensive che sanno di poco ma vendono tanto, dagli aromi smussati apposta per piacere alla massa e dissetare. Tra gli ingredienti figura il riso, utilizzato per garantire il colore chiaro e per aumentare freschezza e pulizia del palato. Cotta per la prima volta nel 1876 a Saint Louis, Missouri, da Adolphus Busch per conto del socio in affari e mercante di liquori Carl Conrad, la marca più diffusa negli Stati Uniti si è diluita nel 2008 all’interno della maxi operazione di acquisto di Anheuser Busch da parte del gruppo belga-brasiliano InBev. E qui scatta il primo corto circuito dell’operazione America: Budweiser è infatti prodotta, confezionata e venduta per conto di una compagnia che mantiene il suo quartier generale a Leuven, dall’altra parte dell’Oceano Atlantico. La stessa birra al centro della patriottica campagna di marketing, inoltre, di gusto e storia USA ha ben poco. Il nome stesso ne tradisce l’origine: Busch era stato inspirato dalle lager boeme, chiare, limpide e rinfrescanti, assurte a stile da imitare dopo che Josef Groll ne aveva cristallizzato le caratteristiche nel 1842 con la realizzazione della perfetta Pilsner Urquell. Il centro brassicolo di České Budějovice, germanizzato in Budweis, offrì la denominazione alla bionda più famosa d’America, creando allo stesso tempo i presupposti per una feroce battaglia legale tra cechi e statunitensi che si trascina fino ai giorni nostri intorno alla paternità di un’indicazione geografica trasformata in brand.
Ora, al di là del giudizio sulla campagna pubblicitaria, discutibile quanto si vuole ma estremamente efficace in un paese dove il contratto tra cittadino e nazione si riscrive e sigilla a ogni inno suonato in una partita di baseball di ultima divisione, dove “God bless America” è la frase di chiusura dei discorsi presidenziali, diventa invece estremamente interessante, per chi nella birra vede uno degli elementi che formano il panorama culturale di uno Stato, la conseguenza logica del marketing elaborato ai piani alti di una multinazionale belga guidata da un team di brasiliani. Che non coinvolge soltanto un affascinante gioco mentale sul piano semantico (“Budweiser, l’America è nelle tue mani”, si afferra una lattina e al contempo si abbraccia una nazione, un destino), ma che mira a rappresentare qualcosa di più grande.
Se una birra in particolare si chiama America, e lo specifica chiaramente sull’alluminio che la protegge e conserva, si presenta dunque come “la” birra americana? Solo per urlarlo ai quattro venti, la Bud acquista di diritto il pregio di diventare l’emblema di una produzione enormemente più vasta, diversificata e interessante? Al tempo dei primi esperimenti del suo creatore, nel 1876, lavoravano sul suolo Usa 2685 birrifici, locali e non. Nel 1990, mentre sulle immense praterie soffiavano ancora lievi i venti rivoluzionari dei nuovi produttori artigianali (Sierra Nevada, Anchor, Brooklyn tra gli altri) il numero era drasticamente sceso a 284. Concentrazioni produttive, economie di scala, martellanti campagne pubblicitarie avevano raccolto il gusto del pubblico attorno alle anonime american light lager.
Ora che il vento della craft beer revolution si è ingrossato, i birrifici in attività sono diventati 4269, di cui 4225 craft. Solo cinque anni fa, nel 2010, erano 1813. Dal Pacifico, con California, Oregon e Washington a fare da apripista, al New England, una nuvola di aromi luppolati bucata dalle ciminiere dei megabrewers del Midwest ha ridisegnato l’orizzonte della produzione di birra made in Usa: nuovi stili sono stati elaborati, e vecchie ricette provenienti dai paesi europei di antica emigrazione sono riproposte con entusiasmo e rivitalizzate. La Brewers Association, che raccoglie i produttori “artigianali” e ne difende interessi e scopi, assicura che ogni americano può trovare, in un raggio di dieci miglia, un birrificio. Certamente un panorama più complesso di una America racchiusa in lattina, tra aquile e bandiere.