Dall'ordinanza del gip di Reggio Calabria emerge che la ragazzina aveva scritto in un tema l'orrore che stava provando. E la brutta copia di quella confessione era arriva a casa: la mamma l'aveva letta, ma senza denunciare. Nell'inchiesta spunta anche un poliziotto, che consiglia al fratello (tra i presunti stupratori arrestai): "Se ti chiamano non dire niente, digli che non ti ricordi"
La madre sapeva, il poliziotto fratello di uno dei violentatori sapeva, il paese – secondo i magistrati – sapeva. E se non sapeva, “correva voce che”. È un abisso terribile quello che si è aperto a Melito di Porto Salvo, quattordicimila anime in provincia di Reggio Calabria, dove il 2 settembre scorso gli investigatori guidati dal procuratore Federico Cafiero De Raho hanno arrestato sette giovani per violenza sessuale di gruppo aggravata: sono accusati di aver abusato continuamente, tra la fine del 2013 e gli inizi del 2015 una ragazzina di 13 anni. L’aspettavano fuori dalla scuola per portarla in luoghi appartati e poi a turno la stupravano.
Praticamente un branco di violentatori – fino a sentenza definitiva, soltanto presunti – guidati da Giovanni Iamonte, il rampollo della famiglia mafiosa del paese. E in effetti quella di Melito è una storia di ‘ndrangheta, di violenza, di squallore, ma soprattutto di omertà. Tanta omertà. Come anticipato dal fattoquotidiano.it, infatti, il peso della famiglia mafiosa è arrivato a condizionare non solo la comunità che ha taciuto, ma anche i genitori della vittima. “Il padre della ragazza – ha specificato il procuratore aggiunto di Reggio Calabria Gaetano Paci – si era lamentato con il padre di Iamonte senza però denunciare le angherie”. E adesso, dalle 133 pagine di ordinanza firmate dal gip di Reggio Calabria Barbara Bennato emerge un particolare inquietante: la madre era a conoscenza degli abusi subite dalla figlia. Come racconta il Corriere della Sera, la donna aveva letto la brutta copia di un tema che la tredicenne aveva lasciato sulla scrivania della propria stanza.
A raccontarlo è la stessa bambina, parlando con la psicologa. “Un giorno a scuola la mia professoressa d’italiano ci dà un tema dove dovevamo parlare del ruolo che avevano avuto i nostri genitori nella nostra vita. Ed io che nonostante non abbia detto niente per proteggere anche loro ero arrabbiata perché comunque loro non se ne sono mai accorti di niente. Di giorno in giorno non se ne sono accorti proprio di niente. Quindi ero un po’ arrabbiata con loro di questo perché comunque come fai a non accorgertene che tua figlia sta attraversando un periodo difficile, una difficoltà, niente completamente”. La copia di quel tema in cui la giovanissima ragazza racconta l’orrore che sta vivendo arriva quindi tra le mura familiari. “Io torno a casa mi viene a prendere mia madre e inizia a dirmi che belle cose che hai scritto. Io scoppio in un pianto e le racconto tutto quello che era successo, tutto… non i particolari”.
Quel tutto vuol dire praticamente tre anni di abusi sessuali di gruppo, da una bambina che all’inizio di questa tragedia aveva tredici anni: perché la madre non ha denunciato? “La rivelazione dei fatti avrebbero provocato un discredito della famiglia e che forse avremmo dovuto andare ad abitare in un altro paese”, dice la donna. “La ragazzina si era sentita sola – annota il gip – senza alcuna protezione e, pur sopraffatta dalla rabbia per l’abbandono dei genitori, si era trovata nelle condizioni di dover subire in silenzio un penoso rosario di violenze, atteggiamento paradossalmente impostole a protezione dell’incolumità degli stessi genitori, distratti ed inadeguatamente interessati alla sua crescita evolutiva”.
Ma non solo. Perché dall’inchiesta emerge che uno dei ragazzi arrestati, Davide Schimizzi, è fratello di un poliziotto. Viene intercettato mentre chiede consigli proprio a lui, alla vigilia di un possibile interrogatorio. E i consigli arrivano. “Quando ti chiamano – dice il poliziotto – tu vai e dici: non ricordo nulla! Non devi dire niente! Nooooo. Davide, non fare lo stortu. Non devi parlare. Dici: guardate, la verità, non mi ricordo. E come fai a non ricordare? Devi dire: sono stato con tante ragazze, non mi ricordo!”. “Fare lo stortu” per il poliziotto fratello dello stupratore (presunto), vuol raccontare la verità. Ma la verità a Melito sembra essere un concetto soggettivo. Il parroco Benvenuto Malara, citato da La Stampa, si fa riprendere dalle telecamere e dice: “Purtroppo corre voce che questo non sia un caso isolato. C’è molta prostituzione in paese“. Prostituzione, cioè una bambina di 13 anni, un metro e 55 per 40 chili, violentata per tre anni da sette ragazzi guidati dal figlio del boss.
L’altro sacerdote, Domenico De Biase parole diverse: “Sono tutte vittime – dice citato sempre dal quotidiano torinese- anche i ragazzi. E poi, io credo che certe volte il silenzio sia la risposta più eloquente”. Già, il silenzio. Sceglie di parlare, invece, il sindaco Giuseppe Meduri, ma lo fa per attaccare il Tgr Calabria: “Certe ricostruzioni uscite sul servizio pubblico ci hanno offesi”, tuona. Ma che ha fatto il servizio pubblico per offendere Melito? Ha intervistato una signora – sempre di Melito – che diceva: “Sono vicina alle famiglie dei figli maschi. Per come si vestono, certe ragazze se la vanno a cercare”. Sempre a Melito, due giorni fa, hanno organizzato una fiaccolata di solidarietà per la ragazzina violentata: davanti alla stazione c’era l’associazione Libera di don Ciotti, i gonfaloni degli altri comuni, gli scout. In totale 400 persone su 14mila abitanti. E molti venivano dalle altre città.