Con periodica ciclicità, di norma a fine estate, le notizie sulla difesa idraulica di Venezia ci informano che l’agognata e discussa opera di difesa dall’acqua alta ancora non c’è. Il sistema Mose di paratoie mobili, ideato per la salvaguardia di Venezia, fu il mio primo lavoro di laboratorio. Era la primavera del 1975, quando il professor Marchi mi chiese di condurre (manualmente) alcune esperienze su modello idraulico a piccola scala per valutare eventuali fenomeni di risonanza nell’interazione della struttura con il moto ondoso in fase di apertura.
Confido con soddisfazione di non essermi mai più occupato del progetto. Né fui mai più coinvolto nell’immortale vicenda. Né posso testimoniare le liti scientifiche, le dispute ambientali, i poco simpatici episodi di corruttela che sarebbero emersi in fase di costruzione. Parola impegnativa, costruzione! A quarant’anni dalle mie rudimentali prove di laboratorio, la fine tuttora non si vede e nessun “statista” ha potuto soddisfare il proprio narcisismo inaugurando l’opera, mentre il cronoprogramma aggiornato prevede(va) la fine dei lavori nel 2018 e la fase di avviamento traguarda più lontano, oltre il 2020.
MOSE sta per MOdulo Sperimentale Elettromeccanico, ma chi inventò l’acronimo pensava certo al racconto biblico di Mosè, quando su indicazione divina, il profeta divise le acque del mar Rosso affinché il suo popolo potesse attraversarlo in sicurezza, per poi richiuderle sull’esercito del faraone al loro inseguimento. Dopo aver ricevuto da Dio le Tavole della Legge sul monte Sinai e aver punito chi si era macchiato del peccato del Vitello d’Oro, Mosè vagò per 40 anni prima di raggiungere la terra promessa e, quando l’avvistò, morì sul monte Nebo. Mai acronimo fu più azzeccato.
Ricordo soltanto che, durante una delle prime riunioni sulla questione veneziana, Enrico Marchi, uno dei maestri dell’idraulica italiana del Novecento, disse: “Personalmente serbo una convinzione che ha una semplicità, direi lapalissiana: penso che, prima di tutto, l’attenzione vada posta nel non aggravare la situazione esistente“. Finora, il Mose non l’ha aggravata. Almeno questo.
All’epoca, facevo esperimenti sulla erosione e sulla sedimentazione fluviale nei fiumi calabresi e mi ero permesso di sussurrare che i fenomeni di trasporto e deposizione dei sedimenti avrebbero potuto creare qualche problema al sistema. Non vi dico i sorrisini di compassione, gli stessi che ricevetti durante una successiva visita al cantiere sperimentale in laguna che feci con gli studenti del Politecnico di Milano negli anni ’80 del secolo scorso. I quali hanno ormai qualche capello bianco come me e possono raccontare quella esperienza anche in tono più spiritoso del mio. Qualche anno dopo un amico scomparso prematuramente, il fisico Per Bak, avrebbe inventato il paradosso abeliano del cono di sabbia per spiegare alcuni comportamenti critici nei sistemi caotici, quello stesso paradosso che uno dei personaggi nel mio romanzo usa per capire la propria crisi personale e, nello stesso tempo, la crisi economica del 2012.