Cinema

Beatles – Eight days a week, Ron Howard porta i Fab Four al cinema. Ed è una meraviglia “dedicata soprattutto a coloro che non c’erano”

Un documentario che disegna già un suo simbolico “the end” ben prima delle note di Don’t let me down sul tetto londinese con John impellicciato, George in pantaloni verdi, Ringo in impermeabile rosso e Paul barbuto in nero, quando Lennon, pressappoco nel ’64, ancora sorridente e scanzonato, vive con spensieratezza l'esposizione planetaria e dichiara: “Quando finirà il successo? Beh, ci faremo una risata”

John, Paul, George, Ringo e… Ron. Solo dopo aver visto al cinema Beatles – Eight days a week, il documentario di Ron Howard, in sala solo dal 15 al 21 settembre 2016, capirete perché il Richie di Happy Days è diventato il sesto componente della band di Liverpool. La full immersion nei live dei Fab Four dal Cavern Club nel 1963 a Saville Road nel gennaio del ‘69, cattura sudore, urla e significato di un fenomeno culturale pop che ha fatto la storia. Uno sguardo gentile sull’umanità del quartetto, su quell’essere corpi/voce/evento perenne, quel diventare puntini piccoli piccoli in mezzo ad una folla immensa, brulicante, sbracciante e feroce di fan.

Dicevamo dei live, ossatura drammaturgica del documentario, su coloro che sfondarono le mura dei teatri e aprirono la strada al live negli stadi per decine di migliaia di spettatori. Un continuo rilancio con l’apertura di interi brani, stralci, o anche soltanto ritornelli suonati e cantati dal vivo, recuperati grazie ad un’attività di raccolta ed archivio – One Voice, One world – che vede momenti buffi e concitati, travolgenti e inquietanti, dal palco delle Filippine a quello, ultimo, del 1966 a Candlestick Park di San Francisco, donato da una signora allora bambina seduta in prima fila che con un Super8 riprese anche la discesa finale dal palco di Lennon, McCartney, Starr ed Harrison. Un Dolby Stereo che travolge, singole piste ripulite digitalmente dove le chitarre di George e John finalmente vivono di vita completamente propria, e dove Ringo esalta tamburi e soprattutto piatti dal suo storico trespolo batteria.

La direzione che prende Howard non è però quella della memorabilia tout court (che c’è, e quando c’è fa lucidare gli occhi), ma di una storia che attraverso gli exploit mediatici, l’attenzione mondiale e i fari puntati addosso 24/24 (un singolo ogni tre mesi, un album ogni sei, e tour a go-go), fa emergere l’alchimia naturale dei ragazzi di Liverpool, il loro normalissimo, e allo stesso tempo codificabile dalle masse, approccio alla musica come “divertimento”. L’essere se stessi, battuta pronta e spontanea, magari irriverente ma sincera, quando poi i decenni a venire ci avrebbero mostrato eccessi provocatori artificiosi. Apice che si tocca quando i quattro interpretano con insana leggiadria il film di Richard Lester, A Hard days night (1964), gioco, impostura, e mise en abyme, del fenomeno Beatles, quasi ci fosse bisogno di parodiare popolarità, ossessione, e quell’inquadratura in controcampo del primo piano di una ragazzina qualunque che si urla e si tira i capelli al sentire/vedere un ciuffo di Fab Four.

Ascesa e poi declino attraverso il cinema, paradosso bizzarro quando oggi è mezzo che non serve quasi più a nulla, che arriva l’anno dopo con Help (1965), manifesto creativo della forzatura produttiva, della parossistica e tarda consumazione di un’eterna epifania. Intanto Lennon, McCartney, Harrison e Starr hanno conquistato le masse con la freschezza di accordi e testi immediati, e ora si apprestano alla gloria eterna. Beatles – Eight days a week è punteggiato di copertine di lp che ripercorrono carriera e vendite dei Fab Four. Così come Rubber Soul spiazza fan e critica, l’ottavo album Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band consacra il mito e sancisce la definitiva ricerca solista dei quattro. Howard sta lontano da gossip e polemiche, mostra la pazienza di Brian Epstein e George Martin di fronte alla frattura e ai cambiamenti sonori del gruppo, non cita mai la signorina Yoko Ono, allunga il percorso con la polemica rintuzzata da Lennon (una battuta sui Beatles più grandi di Gesù) che fa andare a rotoli l’ultimo tour americano. Perché al regista premio Oscar interessa molto di più il lato A della vicenda Beatles (c’è l’ok di eredi sparsi su royalty e immagini), la magia degli accordi di Love me do o Ticket to ride, o di quando al Gator Bowl di Jacksonville l’11 settembre 1964 si misero lì tutti e quattro di fronte alle telecamere, come fosse un consesso pellerossa, affermando che “la segregazione razziale non esiste nei nostri concerti”, così neri e bianchi si mescolarono in una memorabile serata che altrimenti li avrebbe visti separati in sezioni apposite come sui bus e al ristorante. Del resto Howard lo ha spiegato più volte in questi mesi di lavorazione: “questo documentario è dedicato soprattutto a coloro che non c’erano”. Scarto temporale, sinfonia visiva, Beatles – Eight days a week disegna già un suo simbolico “the end” ben prima delle note di Don’t let me down sul tetto londinese con John impellicciato, George in pantaloni verdi, Ringo in impermeabile rosso e Paul barbuto in nero, quando Lennon, pressappoco nel ’64, ancora sorridente e scanzonato, vive con spensieratezza l’esposizione planetaria e dichiara: “Quando finirà il successo? Beh, ci faremo una risata”.