Secondo gli economisti dediti alla materia, l’indebolimento dei contratti collettivi nazionali è una delle cause della crescente disuguaglianza di reddito e di ricchezza in Europa (leggi l’articolo). Le riforme impegnate a rendere più flessibile il mercato del lavoro nel Vecchio Continente sembrano puntare a salari “maggiormente legati alla produttività”. Per farlo, suggerisce anche Confindustria, bisogna allargare la platea della contrattazione aziendale. Ma a mettere in guardia i governi impegnati nelle riforme del lavoro c’è anche il Fondo Monetario Internazionale, che dopo i decenni all’insegna della fiducia nel libero mercato avverte: “L’analisi comparativa sul piano internazionale mostra come maggiori tassi di copertura della contrattazione collettiva siano strettamente correlati a minori livelli di disuguaglianza. La contrattazione collettiva favorisce il rafforzamento salariale di quei lavoratori che si collocano nella metà inferiore della piramide di distribuzione retributiva”. Gli stessi ricercatori del FMI, riferisce l’Oxfam nel suo ultimo Rapporto sulla disuguaglianza in Europa, hanno recentemente sottolineato che “nelle economie avanzate basse percentuali di sindacalizzazione sono associate ad un incremento delle retribuzioni delle fasce più alte nel periodo 1980–2010”. Insomma, contratti collettivi più deboli e minore penetrazione sindacale si tradurrebbero in maggiore povertà, anche tra coloro che un lavoro ce l’hanno. Un nuovo rapporto tra contrattazione collettiva e aziendale è allo studio anche in Italia. Il ministro del Lavoro Giuliano Poletti, a Cernobbio per il Forum The European House Ambrosetti, spiega così la sua ricetta: “Nessun indebolimento dei contratti collettivi nazionali, ma devo pensare anche alla produttività. Dobbiamo trovare il modo di connettere parte del trattamento economico dei lavoratori alla loro produttività”
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