L’aumento del numero dei profughi e dei migranti economici dall’Africa riporta in primo piano il tema degli aiuti allo sviluppo. La proposta italiana del “Migration compact” vuole replicare l’accordo con la Turchia. Ma investire nella crescita dei paesi africani richiede precise scelte di bilancio.
di Enrico Di Pasquale, Andrea Stuppini e Chiara Tronchin (da www.lavoce.info)
Accordi economici e politici
La crescita del numero di profughi o migranti economici (spesso difficili da distinguere) che attraversano il Mediterraneo per arrivare in Europa ha riproposto di recente il tema degli aiuti economici ai paesi africani per frenare le migrazioni. Non è una novità.
Già durante il vertice europeo di La Valletta del novembre 2015 si era parlato di un possibile “trust fund” di 1,8 miliardi di euro a favore dei paesi africani. Successivamente, nel vertice economico di Davos del gennaio 2016, il tema era stato riproposto sia da Frans Timmermans (vicepresidente della Commissione europea), sia da Wolfgang Schäuble ministro delle Finanze tedesco: quest’ultimo aveva evocato il termine di “piano Marshall per l’Africa”. La natura del vertice di Davos aveva favorito un approccio di tipo economico al problema, sottolineando l’interesse europeo a favorire rapporti meno squilibrati con il continente africano e aprendo a ragionamenti di “co-sviluppo”.
Di fronte però al massiccio flusso di profughi siriani attraverso il mare Egeo, il 18 marzo l’Europa ha firmato un accordo con la Turchia di tipo squisitamente politico, che ha posto bruscamente fine ai passaggi verso la Grecia, di fatto spostando di nuovo il problema verso il Mediterraneo centrale.
L’accordo con la Turchia (e il suo indubbio successo nel frenare il flusso dei profughi siriani) è stato probabilmente di stimolo alla presentazione di una proposta del governo italiano (il cosiddetto “Migration compact”) formalizzata in una lettera alla Commissione europea il 15 aprile.
Nella versione originaria, la proposta italiana offre una ridefinizione della politica di cooperazione verso progetti di investimento con strumenti già esistenti a carico del budget Ue; l’emissione di prodotti finanziari Ue-Africa che facilitino l’accesso dei prodotti africani nei mercati europei e il miglioramento della gestione delle rimesse; una migliore cooperazione in materia di sicurezza; la realizzazione di strumenti di migrazione legale verso l’Europa; schemi di redistribuzione dei migranti all’interno dell’Ue. In cambio, si richiede ai paesi africani un impegno nel controllo delle frontiere e nella riduzione dei flussi irregolari.
Tuttavia, già nel Consiglio europeo del 28 giugno, si ha l’impressione che dopo le prevedibili resistenze tedesche alla creazione degli eurobond, la proposta italiana si orienti a un più prosaico scambio tra risorse finanziarie e controllo dei flussi, sul modello turco. Ma se non si vuole che la definizione di nuovi rapporti tra Europa e Africa resti confinata nel parcheggio delle buone intenzioni di Bruxelles, è necessario considerare che una semplice replica dell’accordo con la Turchia appare difficilmente praticabile nel continente africano.
La prima difficoltà risiede nel fatto che i paesi destinatari delle proposte sono più di uno. La seconda è che ormai la quasi totalità delle migrazioni è gestita da organizzazioni di trafficanti e in molti paesi africani esiste purtroppo una rete di collusione e di corruzione tra queste e le forze dell’ordine.
Occorre poi una riflessione sui risultati, spesso fallimentari, della cooperazione internazionale: già molti anni fa William Easterley in “I disastri dell’uomo bianco” e Dambisa Moyo in “La carità che uccide” denunciavano l’impostazione calata dall’alto che minaccia l’imprenditoria locale e causa la diffusa corruzione delle classi dirigenti africane.
Questione di scelte
Investire nello sviluppo dei paesi africani significa operare scelte di bilancio concrete. Gli aiuti pubblici allo sviluppo stanziati dai paesi Ue ammontano a 56,2 miliardi di euro (è la somma dei fondi diretti Ue di quelli dei singoli Stati, ultimo dato al 2013): cifra pari allo 0,43 per cento del reddito nazionale lordo, ancora lontano dall’obbiettivo dello 0,70 per cento fissato per il 2015.
Una goccia in confronto a quanto l’Europa spende, per esempio, sul versante agricolo: 100 miliardi di euro tra il 2014 e il 2020 per il Feasr (Fondo europeo agricolo di sviluppo rurale), per mantenere una agricoltura spesso non competitiva.
Considerata la complessità del continente africano, la riuscita della proposta europea dipende dalla capacità di rimettere in discussione rapporti economici complessivi che vanno al di là dei rapporti tra istituzioni. L’Africa non è più quella del secolo scorso: l’influenza cinese è molto importante, una classe di consumatori comincia a emergere, ma su tutto incombe una crescita demografica senza precedenti. Sarà banale dirlo, ma per impostare in maniera diversa il rapporto con l’Africa occorre coinvolgere le multinazionali, aprire maggiormente l’Europa ai prodotti africani, agire sui bassi livelli fiscali e non pensare unicamente a una replica dell’accordo con la Turchia.