Firenze è da sempre lacerata dalle polemiche. Le stesse che poi alimentano il suo fuoco. Come l’araba fenice ha bisogno delle fiamme e della cenere per risorgere più bella di prima. Nelle ultime stagioni il mastodontico carro del Teatro della Toscana (uno dei sette Teatri Nazionali), con la sua aura da asso pigliatutto fagocitante, si è attirato non troppe simpatie nel sottobosco della cultura in città.
Dentro l’estate fiorentina appena conclusa l’evento clou è stato la Spoon River (produzione appunto del Teatro della Toscana) al Cimitero delle Porte Sante a San Miniato a Monte (scelta la data fortemente simbolica dell’11 settembre), luogo consacrato che ospita i monumentali ossari di celebri fiorentini da Ottone Rosai a Giovanni Spadolini, da Mario Cecchi Gori a Enrico Coveri, da Pellegrino Artusi a Carlo Collodi, da Giovanni Papini a Vasco Pratolini e Odoardo Spadaro.
L’appuntamento ha visto una prima parte teatrale tra cappelle, vialetti, cipressi, marmi, statue e croci, e una seconda concertistica dedicata all’opera che Fabrizio De Andrè ideò nel concept album Non al denaro non all’amore né al cielo che prendeva la spinta proprio dalle pagine di Edgar Lee Masters. A cento anni dalla pubblicazione degli epitaffi, a quarantacinque dall’uscita dell’lp del cantautore genovese. Nella sfera interpretativa Gabriele Lavia, sempre mattatore carismatico, Marco Baliani, leggermente “freddo”, Iaia Forte, vera diva e passo da Duse, Maurizio Lombardi, fresco ed entusiasta, e Giulia Weber, appassionata, in quella musicale Peppe Servillo, Mauro Ermanno Giovanardi (ex La Crus), Petra Magoni e Ferruccio Spinetti (Musica Nuda)
oltre all’Orchestra della Toscana, una band di cinque elementi, il Trio Amadei, Markus Stockhausen (il figlio di Karlheinz, quello che disse, riferendosi alla
tragedia delle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001: “Questa è l’opera d’arte più grande mai esistita”) e, su tutti, Morgan, che una decina d’anni fa produsse proprio un
album di cover sul lavoro deandreiano, tra tutti, vero depositario della vis del cantante che mise in musica Via del Campo.
Ora, da più parti a Firenze, si sono levate voci in difesa di quel prezioso lavoro, che vide coinvolta tutta la comunità scenica fiorentina, attaccando questa nuova, diversa e differente opera (con l’avallo e il placet di Dori Ghezzi, presente) che certamente non vuole sostituire nella memoria collettiva la precedente ma aveva il desiderio e l’obbiettivo di impreziosire ancora più il progetto di De Andrè sulle parole del poeta americano, soprattutto dal punto di vista musicale e di resa attraverso le note del cantautore, più che da quello puramente teatrale.
Quello Spoon River è ancora negli occhi e nel ricordo delle migliaia di fiorentini (era a ingresso gratuito, gli attori interpretavano e non declamavano da leggio, drammatizzavano anche grazie all’uso di costumi e a piccoli accorgimenti d’oggettistica minimale di scena) che vi accorsero rimanendo tra tombe e lapidi ore e ore ad ascoltare a un palmo di distanza, senza palco, senza filtri a dividere, i loro attori preferiti. E li senti ancora vivi, tra i versi, gli amori e gli odi, le vendette e gli umori mai sopiti, gli innamoramenti celati e le sconfitte palesi, i vizi nascosti, le poche virtù, i mestieri con le loro connotazioni morali, i tradimenti repressi, i tic a delineare caratteri e propensioni, le nostalgie, le invidie. Soprattutto le miserie umane di questa nostra terrena Divina Commedia.
Questo nuovo Spoon River (durante la giornata è stato ringraziato pubblicamente il regista Massai per l’idea originale) è stata un’occasione per apprezzare la forza di Peppe Servillo, la carica di Giovanardi, le variazioni vocali di Petra Magoni, le parole sempre attuali e scalpitanti di Lee Masters come di De Andrè. Nuovamente Spoon River ha chiamato a raccolta Firenze e Firenze ha risposto: “Presente”. Operazioni che fanno bene: viva oggi il Teatro della Toscana, viva l’incipit di Riccardo Massai. Lee Masters è morto, viva Lee Masters. Fabrizio De André è morto, lunga vita a Fabrizio De Andrè. Dormono, dormono sulla collina; nessuno, certamente, si è addormentato.