I primi sono stati gli abitanti delle isole Carteret. Ad essi si sono aggiunti quelli delle isole Tuvalu. Tutti nell’Oceano Pacifico. Adesso alla triste compagnia si sono uniti degli americani, quelli del piccolo paese di Shishmaref di origine inuit in Alaska, a soli cinquanta chilometri dal Circolo Polare Artico.
Shishmaref è a cinque metri sul livello di quel mare che ogni anno avanza di circa sei metri rendendo inabitabili le abitazioni. Per questo i cittadini hanno indetto – e votato con esito positivo – il primo referendum per proporre il trasferimento del paese intero in un altro luogo. Quelli di Shishmaref non sono in realtà i primi profughi ambientali americani. Lo scorso febbraio, infatti, una piccola comunità di nativi americani della tribù Biloxi-Chitimacha-Choctaw dell’isola di Jean Charles, dalla parte opposta degli States e cioè nel sud della Louisiana, è stata costretta ad abbandonare la propria terra per sempre.
Ciò che oggi è un fenomeno sporadico diventerà un fatto abituale, che non farà più notizia. Il Government Accountability Office, sezione investigativa del Congresso degli Stati Uniti d’America, avverte infatti che sono trentuno negli Stati Uniti i paesi che andranno incontro a identica sorte. E altri duecento villaggi dovranno affrontare tale emergenza in futuro.
Se il mare si alza a causa dei cambiamenti climatici, gli uomini possono spostarsi. Doloroso ma fattibile. Certi animali no. È notizia di questi giorni che un roditore australiano, la Melomys rubicola, si è estinto a causa del fatto che in dieci anni il 97% del territorio dallo stesso abitato è andato sott’acqua.
In un mio recente post sostenevo che la libertà ha spesso delle conseguenze, magari infinitesimali ma che ci riguardano tutti. Il nostro stile di vita ha sempre conseguenze. Parafrasando De Andrè: “Per quanto voi vi crediate assolti, siete per sempre coinvolti.”