Ci sono libri rimuginati vent’anni, prima di trovare le proprie pagine. E’ come se si dovessero impastare gli ingredienti raccolti, soli con se stessi, giorno dopo giorno, fare conoscenza con i volti, i luoghi, le personalità, diventarsi reciprocamente familiari, intimi, prima di uscire allo scoperto. Anche per Nicola Bouvier fu così, con il suo splendido La polvere del mondo.
Vent’anni, da quell’indimenticabile “vagabondaggio” dalla Bosnia al Passo Khyber (frontiera Pakistan/Afghanistan), al suo racconto. La definizione “libro di viaggio” è quantomeno fuorviante, però, chiariamolo subito. Non perché non tratti di un viaggio e del relativo diario. Ma perché gli ingredienti di Bouvier, come si diceva sopra, sono ben altri che quelli di un semplice -per quanto lodevole- resoconto. Il suo impasto è fatto di vita e pensiero, osservanza delle stelle e filosofia, romanticismo (nel senso penetrante del termine) e cultura. Con un senso della dissertazione mai ridondante, esibizionista, ma invece curioso, dolce, umanistico. Ci si perde assieme a lui nelle notti iraniane, nei suoni e i passi delle danze slave, nei lineamenti orientali di orizzonti orlati di tramonto, negli occhi neri di donne di imprecise età, fuorvianti, sensuali, perennemente sul punto di uscire di scena.
Ed è una scrittura meticolosa quanto colorata, la sua, animosa, presente alle vicende, piccole e grandi, prolifica di descrizioni eppure mai roboante, e neppure aggettivante, di finto protagonismo. Bouvier ha intessuto un periplo nella letteratura, raccontando e rielaborando quello compiuto nella geografia. Ha raccontato il proprio mondo, dicendo del mondo. E soprattutto ha rispettato le lingue, non soltanto gli idiomi, s’intende, ma anche e soprattutto gli usi, le diverse antropologie, le differenti necessità di distanza o empatia, manie e festeggiamenti, paure e segreti.
Perché tutto questo viaggiare? Perché tutto questo partire -tante volte ci saremo chiesti-, noi amanti del mondo e dell’avventura? Nicolas tenta un’ipotesi, sfacciatamente realistica: “E’ la contemplazione silenziosa degli atlanti, a pancia in giù su un tappeto, tra i dieci e i tredici anni, che dà la voglia di piantar tutto. […] Un viaggio non ha bisogno di motivi. Non ci mette molto a dimostrare che basta a se stesso. Pensate di andare a fare un viaggio, ma subito è il viaggio che vi fa, o vi disfa”.
Si potrebbero riprendere paragrafi interi, per dire della felicità di questa scrittura, dei mondi, delle atmosfere. Una sera per esempio -ci troviamo a Istanbul– da lì a un paio d’ore sarebbe ripartito per Ankara, e scrive: “Decidemmo di partire quella notte. Al Moda-Palas, per una volta, i domestici erano già a letto. Preparammo in silenzio i bagagli. C’era ancora la luce accesa in camera della proprietaria. Passammo la testa attraverso l’uscio socchiuso per salutarla, e ringraziarla. Madame Wanda non ci vide subito. Era seduta e immobile in un letto a colonne, a fianco d’un lume da notte acceso, e con un libro aperto davanti a sé -un Mérimée, mi ricordo-, di cui non voltava più le pagine. Del resto, mai l’avevamo vista del tutto sveglia e presente alla realtà, come se voci giungessero da un altrove per distrarla. La conoscevamo appena. Così la chiamammo piano piano per non spaventarla. Ci vide, vide i nostri vestiti da viaggio e disse: ‘Che Dio vi benedica, piccioncini miei… la Madonna vi protegga, pecorelle…’; poi si mise a parlare in polacco, a lungo, senza fermarsi, con inflessioni di una tenerezza così desolata che ci occorse del tempo prima di renderci conto che non ci guardava già più, e non si rivolgeva più a noi, ma a una di quelle ombre antichissime, e care, e perdute, che accompagnano le persone anziane in esilio e volteggiano in fondo alle loro vite”.
La polvere del mondo, è romanzo già il titolo. Ed è un vagabondaggio la vicenda stessa del libro, scritto vent’anni dopo il viaggio, pubblicato in sordina, dimenticato, ritrovato su di una bancarella di Parigi da Michel Le Bris, autore ed editore a sua volta, che ne rimase folgorato e lo ripubblicò. In Italia venne stampato nel 2011 dall’editore Diabasis, in una bellissima edizione a cura di Maria Teresa Giaveri, accompagnato dai disegni di Thierry Vernet e presentato da Jean Starobinski, che nell’incipit della prefazione scrive così: “Vocazione: viaggiatore. Professione: fotografo e iconografo, cioè raccoglitore di immagini. E come legame fra tutto questo: scrittore. E’ così che una scheda segnaletica elencherebbe i diversi lavori di Nicolas Bouvier”.
Questa edizione si reperisce, purtroppo, con alternata difficoltà. Non vorrei terminare questo consiglio di lettura, però, con le mie parole, ma con le sue, che ricamano mondi e li aprono ai nostri occhi, come quando dopo la prima notte in un paese nuovo, al mattino ci alziamo dal letto e apriamo le imposte per curiosare, scoprendo un sole inedito: “In fin dei conti, ciò che costituisce l’ossatura dell’esistenza, non è né la famiglia, né la carriera, né ciò che gli altri diranno o penseranno di voi, ma alcuni istanti di questo tipo, sollevati da una levitazione ancora più serena di quella dell’amore, e che la vita ci distribuisce con una parsimonia a misura del nostro debole cuore.”