Fu il primo presidente "tecnico", fu presidente senza mai essere parlamentare. Quando gli chiesero il bis sul Colle rifiutò: "Il mandato è troppo lungo e ho 85 anni". Poche righe che rispecchiavano le caratteristiche che secondo lui erano dei suoi concittadini: schietti e concreti. Nella sua città, in quei 7 anni, è tornato 3 volte in visita ufficiale. E, facendo impazzire gli addetti alla sicurezza, chiedeva sempre di andare a passeggiare sulla Terrazza Mascagni. Per vedere il mare
Era stato il “tecnico“, prima di tutti: da non parlamentare fu chiamato a capo del governo, per portare per mano alle elezioni un Paese in ginocchio, dopo le bombe della mafia e il disastro di Tangentopoli. E doveva essere il primo a risalire al Quirinale, alla fine del settennato, per un secondo mandato. “Ora vedremo” rispose durante
D’altra parte quel rifiuto così gentile non fu una sorpresa. Mentre attraversava Livorno insieme a Franca, a pochi giorni dalla fine del mandato, la sua città lo acclamava e lui restava in silenzio, sorrideva e restava in silenzio, stringeva mani, sorrideva e restava in silenzio, che forse è il modo dei livornesi per commuoversi e non farlo vedere. “Abbiamo la fama di essere impulsivi – rispose ai cronisti, parlando di sé e degli altri livornesi – Che non facciamo prevalere i pregiudizi sul cuore. Anzi, lo sappiamo, il cuore è la nostra forza e quando il cuore finisce alla testa abbiamo i livornesi capaci di costruire e di rendere Livorno la città che è: positiva, aperta, generosa“. Una lezione che la sua città ogni tanto si dimentica, presa com’è dalle crisi e delle contraddizioni dei tempi di oggi.
Livorno non gli era rimasta solo nell’accento dei discorsi di fine anno – quelle c, quelle t, quelle g non gli andarono mai via nonostante i decenni passati a Roma. “Sono
Fu lui a ridare una parvenza di senso al tricolore, all’inno di Mameli, all’unità d’Italia dopo decenni in cui la sinistra guardava tutto questo con sospetto: lo sguardo bonario e il tono da sala d’aspetto vinsero sugli strepiti del partito di secessione e di governo. I garibaldini livornesi erano stati centinaia (in 800 parteciparono alle varie spedizioni per la Sicilia), per Garibaldi Livorno era una seconda casa e uno dei suoi soldati si chiamava Giuseppe Bandi: fondò il Telegrafo, poi diventato il Tirreno, il giornale della città. E così il suo lungo “viaggio in Italia” durante il settennato, Ciampi lo fece cominciare e finire a Livorno.
Dormì sempre da Tamara, la vedova di suo fratello Giuseppe, anziché in prefettura. “E’ come se non mi fossi mai staccato”. Il nipote è proprietario del negozio di ottica più antico (“Ciampi Ottico dal 1863”), la zia Milla era una delle figure più impegnate nella diocesi di Livorno, qui aveva due vecchi compagni del Partito d’Azione (con il quale combatté la Resistenza), due fratelli che di cognome facevano Misul ed erano esponenti della Comunità ebraica, una delle più numerose d’Italia. Era stato amico del primo sindaco di Livorno, Furio Diaz, e di uno dei suoi successori, Nicola Badaloni.
Nel 2004 da presidente volle inaugurare il teatro Goldoni chiuso da vent’anni, quello dal quale il 21 gennaio 1921 uscirono furibondi Gramsci, Bordiga e gli altri per andare al San Marco a fare un pezzo di storia. Poco prima di quel nastro tagliato aveva ascoltato in Comune come si sarebbe trasformato il cantiere navale, che da vecchio illustre aveva ormai finito di vivere dopo una lunga agonia. Aveva attraverso
Al Vernacoliere riuscì il capolavoro di smitizzare l’elezione al Quirinale del livornese più celebre e insieme anche tutti i livornesi. Titolò: ‘Un beve i ponci, ‘un fa i ruti, ma che livornese è?. Troppo british per essere livornese, insomma. In realtà pare che il ponce – bevanda alcolica livornese che si prende al posto del caffè – gli piacesse. E d’altra parte nel dicembre 2005 – per il compleanno – non rinunciò ad assaggiare un po’ della sua giovinezza mentre gli arrivavano gli auguri dai capi di Stato e di governo di tutto il mondo: la Merkel, Putin, Benedetto XVI. Il presidente della Repubblica ringraziò caramente e si mise a tavola ad affondare cucchiaio e forchetta nella scodella piena di
Da capo dello Stato non rinunciò nemmeno ad andare allo stadio, nel 2004. Non c’era più stato dagli anni Quaranta, quando era ragazzo. Lo stadio, costruito per volere di Benito Mussolini (suocero di un livornese ministro degli Esteri, consuocero di un livornese presidente di quella specie di Camera), forse si chiamava ancora “Edda Ciano” o forse gli americani lo avevano già trasformato in Yankee stadium. Dopo oltre cinquant’anni il Livorno tornava in serie A: “Non potevo perdermi l’avvenimento. E poi qui c’è questo bel sole“. La spontaneità di un uomo qualunque, le sue passioni (il teatro, lo stadio, il cibo, la città natale), insieme alla solidità dell’uomo delle istituzioni, il traghettatore che porta un Paese fuori dalle lacrime e dalla vergogna e cerca di farlo tornare fiero. Un po’ come Pertini, si disse.