La drammatica vicenda di Tiziana Cantone ha posto l’attenzione anche sulla rilevanza della condanna delle spese legali in un processo. Nel dibattito che ne è scaturito molti hanno pensato che pure la condanna a pagare 20.000 euro di spese legali abbia avuto un peso nella decisione del suicidio. E’ difficile sostenerlo perché la ributtante gogna alla quale è stata esposta ha certamente avuto il peso decisivo. Ma la condanna alle spese, prevista e disciplinata dal codice di procedura civile, è uno strumento di enorme potere, posto nelle mani del giudice. Uno strumento che può cambiare il destino, e dunque anche la vita, di una persona.
Il diritto costituzionale di difesa può dirsi realizzato solo ove sia garantito ad ogni soggetto un esercizio effettivo, tanto ab initio quanto alle conseguenze che possono derivare da un esercizio negativo o addirittura abusivo di tale diritto, ciò appunto per non gravare la parte vittoriosa di spese che concretamente ne pregiudichino o riducano le ragioni accertate. Nel nostro ordinamento vige il cosiddetto principio della soccombenza, secondo il quale chi perde la lite deve farsi carico delle spese di lite della parte vittoriosa. La condanna alle spese di lite può divenire una voce importante in relazione allo stesso oggetto del giudizio, il cui quantum delle spese può non solo cambiare la percezione della portata finale del provvedimento, ma addirittura ridimensionare drasticamente le dimensioni del provvedimento stesso, vanificandolo o sminuendolo fortemente (si pensi ad esempio ad una lite di valore limitato che però impone di spendere un importo analogo per difendersi). Domina quindi il criterio oggettivo della regola della soccombenza basato sul raffronto tra domande ed eccezioni formulate e il contenuto della decisione.
L’art. 91 codice di procedura civile sancisce in particolare che “Il giudice, con la sentenza che chiude il processo davanti a lui, condanna la parte soccombente al rimborso delle spese a favore dell’altra parte e ne liquida l’ammontare insieme con gli onorari di difesa” e l’art. 92 codice di procedura civile che “il giudice, nel pronunciare la condanna di cui all’articolo precedente, può escludere la ripetizione delle spese sostenute dalla parte vincitrice, se le ritiene eccessive o superflue; e può, indipendentemente dalla soccombenza, condannare una parte al rimborso delle spese, anche non ripetibili, che, per trasgressione al dovere di cui all’articolo 88, essa ha causato all’altra parte. Se vi è soccombenza reciproca ovvero nel caso di assoluta novità della questione trattata o mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti, il giudice può compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero”. Dunque è esclusivamente il giudice a decidere se condannarti alle spese e a quanto, potendole compensare. E spesso la decisione non è motivata come dovrebbe o addirittura è abnorme e lacunosa.
Giova ricordare come il legislatore negli ultimi 7 anni abbia realizzato una rete di strumenti intimidatori dell’art. 24 Costituzione, come pensato dai padri costituenti, compromettendo la tenuta dello Stato di democrazia, diluendo i diritti nell’inchiostro di una tutela indebolita, realizzando un diritto alla difesa censorio, con una tutela riservata solo ai soggetti più abbienti, in quanto dotati di maggiori risorse (dalla modifica dell’art. 96 codice di procedura civile con l’introduzione del cosiddetto danno punitivo, all’appello col filtro all’aumento esponenziale dei contributi unificati e degli altri tributi correlati, alle sanzioni pecuniarie in caso di soccombenza etc).
Con il lemma «spese» il codice di procedura civile effettua un generico e non meglio definito riferimento a tutti gli esborsi che complessivamente costituiscono il costo del processo, cioè a tutti gli oneri economici relativi ad attività direttamente coordinate con lo svolgimento del processo. Tali oneri possono suddividersi perlomeno in due tipi: a) esborsi che assurgono a tributi (contributo unificato per l’iscrizione a ruolo della controversia, imposta di registro) o di pagamento di diritti per prestazioni ipoteticamente espletate da impiegati pubblici (cancellieri ed ufficiali giudiziari), dunque riconducibili ad un corrispettivo per la prestazione del servizio giustizia ad opera dell’apparato pubblico (costi giudiziali); b) compensi versati a soggetti privati (difensori, consulenti tecnici, custodi) per attività espletate in relazione al processo (inclusi i costi stragiudiziali). Sono considerate ripetibili le spese che abbiano origine nel processo e negli atti in esso compiuti, quali le spese: – relative ad atti funzionali all’attività difensiva («compensi»), purché documentate, ivi comprese le spese per consulenza tecnica di parte e per attività ante giudizio ove necessarie ad accertare l’altrui condotta illecita; – versate all’erario per imposta di registro; – successive all’emissione della sentenza, per registrazione e trascrizione; – per gli accessori fiscali al difensore (Iva e contributo previdenziale); – il rimborso forfetario per spese generali stabilito in misura percentuale.
La discrezionalità nella liquidazione delle spese gode di amplissimo spettro d’azione. Infatti liquidare X o 3X, compensare le spese o addirittura liquidarne X-1 può voler dire cambiare radicalmente l’esito di un giudizio, soprattutto se di valore contenuto ove l’entità delle spese può addirittura travalicare lo stesso valore economico delle domande. La condanna alle spese è pertanto un delicatissimo strumento di equità processuale e sostanziale al contempo, pretendendosi al riguardo una straordinaria attenzione dall’organo giudicante, dotato di tale potestà. Potestà che non sempre viene esercitata con la dovuta attenzione, così alimentandosi ulteriori ingiustizie ovvero imponendo alla parte l’ulteriore onere di dover impugnare e ricorrere avverso tale esercizio.