Ha creato interesse e scandalo la vicenda della ragazza suicida i cui video hard sono stati “postati” sul web, presumibilmente dagli amici che li avevano ricevuti “confidenzialmente” e che poi sono stati ripresi e riprodotti viralmente. La famiglia e la Magistratura fanno intendere, più o meno esplicitamente, che il suicidio sia stata la terribile conseguenza del disonore, causato proprio da quelle immagini.
Pare che le inchieste attualmente aperte siano due, una per diffamazione ed un’altra che ipotizza l’istigazione al suicidio. La prima deriverebbe addirittura da una denunzia della ragazza stessa che, mesi fa, non sapeva più come far cancellare dalla rete le sue immagini private. Da un punto di vista strettamente giuridico sarà assai complicato provare il nesso di causa tra la presenza delle immagini ed il tragico gesto suicidiario. Questo perché è possibile (forse) risalire agli amici (spregiudicati) che hanno pubblicato quanto la giovane aveva loro inviato (ma in questo caso si tratta, semmai, di sola diffamazione) mentre risulterà quasi impossibile risalire alle persone fisiche che, poi, hanno reso incontrollabile il moltiplicarsi di quelle stesse immagini.
Questa dinamica apre, per l’ennesima volta, il tema della regolamentazione di ciò che c’è sul web. Il “gioco” e l’essenza vera di quel mondo è, infatti, proprio la sua viralità. Negli anni sono nate “figure umane” del tutto nuove, delle vere e proprie “star” del web, divenute tali non tanto per il contenuto dei loro post, quanto piuttosto per la loro diffusione, il numero delle visualizzazioni e dei “click” che vengono fatti dagli utenti su quanto pubblicato. Per comprendere la portata di tutto questo, basta dire che Youtube, il contenitore mondiale di video, inserisce pubblicità e dunque business, al raggiungimento di un determinato numero di “contatti”. E’ del tutto evidente che questa modalità non può giustificare la distruzione mediatica di una persona. Ma è altrettanto vero che bisogna avere coscienza che la legislazione attuale non è stata costruita con in mente il mondo del web.
Nel caso della ragazza suicida gli strumenti giuridici che la Magistratura sta utilizzando sono entrambi inadeguati, l’uno per difetto e, probabilmente, l’altro per eccesso. La diffamazione è infatti un reato che punisce troppo blandamente chi diffama in rete e l’istigazione al suicidio, quasi certamente, come detto, non può arrivare a colpire i responsabili. Probabilmente sarebbe necessaria una integrazione del testo sulla diffamazione che preveda la punibilità delle condotte di coloro che ledono l’onore ed il decoro della persona le cui immagini, video e pensieri vengono “inizialmente” inseriti sulla rete. Quasi una norma sul modello dello stalking, che punisce anche per le conseguenze potenziali a cui può portare una certa condotta e, in questo caso, un “post”.
D’altro canto non è immaginabile “fermare il web”, credo nemmeno le sue “devianze a luci rosse”. Sarebbe una guerra contro i mulini a vento e risulterebbe antistorica. A questo proposito si apre un nuovo fronte, ben più interessante di quello giuridico o comunque capace di influenzare anche questo: Cristina Meini, filosofa della mente e psicologa cognitiva, ha scritto un testo illuminante che spiega come alcuni strumenti che l’uomo utilizza tutti i giorni, da meri utensìli, divengono delle vere e proprie “prosecuzioni” della mente e questo vuol dire che il loro costante utilizzo crea dei percorsi mentali necessari; la psicologia direbbe che si tratta di “dipendenze”. Questo effetto che Cristina Meini chiama “mente estesa”, crea qualcosa di molto di più di una “questione psicologica”. Incidendo infatti sui percorsi dei neuroni, “stampa” ed “imprime” i neuroni dell’utilizzatore e dunque imposta il libero arbitrio di ciascuno, limitandolo o comunque “conducendolo” verso quello specifico percorso mentale.
E’ del tutto evidente che tutto ciò implica che il cervello umano si formi “a due strati”, con uno strato tipicamente “umano” e legato alla vita quotidiana e reale e l’altro che vive quella virtuale, con le regole tipiche di quel mondo. Che è senza regole. Da un punto di vista cognitivo questo sdoppiamento non è facile da affrontare, al punto che l’“io” sul web potrebbe non riconoscere l’ “io” del mondo naturale e viceversa, creando una sfida assai complicata per il diritto e dunque la regolamentazione di ciò che avviene in rete. Con buona pace per chi pensa ancora che ciascuno di noi sia potenzialmente dotato di un libero arbitrio assoluto e non sia, piuttosto, “eterodiretto” da ciò che si forma nei circuiti neurali del cervello.