In questi ultimi 50 anni si è diffusa l’idea che il dibattito pubblico d'oltreoceano sia il regno del rispetto delle regole. Ma si tratta di una costruzione ideologica e di facciata, che risale soprattutto all’immagine di un presidente, Richard Nixon, costretto a dimettersi per le proprie menzogne e per non rischiare l’impeachment per il caso Watergate. Ma i casi più recenti di dimissioni per politici colti in castagna riguardano situazioni ormai al limite, indifendibili di fronte allo scandalo
Non è un Paese per tipi sinceri. E forse non lo è mai stato. Uno dei temi più spinosi e sentiti di queste presidenziali Usa riguarda la verità. O meglio, la sistematica attitudine a sorvolare sulla verità, a dire mezze verità, a dire una cosa e subito dopo il contrario, da parte dei candidati alla presidenza: Hillary Clinton e Donald Trump. Il malore di Clinton alla cerimonia a Ground Zero è solo un episodio, forse il più eclatante, di un atteggiamento che si è fatto sistema. Per più di cinque ore collaboratori e portavoce della candidata democratica hanno insistito sulla versione del “colpo di caldo”. In realtà, sapevano da almeno due giorni che Clinton aveva la polmonite.
Non è la prima volta che la leader democratica inciampa in un passo falso di questo tipo. Già nel 1996, sul New York Times, William Safire definiva Clinton “una bugiarda congenita”. Allora a sostanziare il giudizio del giornalista c’erano fatti come il licenziamento di membri dello staff della Casa Bianca e il caso legato al suicidio di Vince Foster. Questa campagna elettorale ha portato ulteriori munizioni a chi crede che Clinton sia “una bugiarda congenita”. C’è stato il caso delle mail inviate dal suo server personale quand’era segretario di Stato, che lei dice di aver consegnato integralmente agli investigatori (ma, secondo molte versioni, ne mancano ancora 30mila). C’è la questione di quello che Hillary Clinton sapeva sui rischi che il corpo diplomatico Usa correva in Libia, dove l’11 settembre 2012 fu ucciso l’ambasciatore Chris Stevens. C’è il tema dei finanziamenti della Clinton Foundation e l’assicurazione data dalla candidata che “nessuno dei finanziatori della Fondazione ha mai avuto un canale di accesso privilegiato quando ero segretario di Stato”: non è vero; ci sono le mail in cui i collaboratori di Clinton fissano appuntamenti per finanziatori esteri.
Senza contare i giri di valzer su tutta una serie di questioni politiche – dalle sue posizioni sui matrimoni gay a quelle sui trattati di commercio internazionali – in cui Clinton ha detto una cosa e poi l’ha contraddetta (ma qui, si potrebbe dire, siamo ancora nel campo del legittimo cambiamento di idee). L’inciampo di Ground Zero è però una menzogna, pura e semplice. La candidata e il suo staff hanno mentito sulle sue condizioni di salute; dimostrando, vale la pena di ricordarlo, un errore di giudizio piuttosto clamoroso. Proprio la questione della salute di Hillary Clinton è da mesi oggetto di illazioni e teorie cospiratorie. La menzogna su questo tema particolare è dunque un vero e proprio boomerang politico, che Clinton sta già pagando. Gli ultimi sondaggi la danno ormai di soli pochi punti davanti a Donald Trump. Secondo un rilevamento New York Times/Cbs News, Clinton avrebbe il 46% dei voti contro il 44% di Donald Trump. Secondo una rilevazione USC Dornsife/Los Angeles Times, il miliardario newyorkese avrebbe addirittura 6 punti di vantaggio: il 47,2% contro il 41,3% di Hillary.
Se dal campo democratico passiamo a quello repubblicano, le cose non vanno molto meglio. E’ stato Politico.com ad attribuire a Trump il premio “Menzogna dell’anno 2015”. E un giornalista conservatore come David Brooks, sul New York Times, ha scritto che Trump “è forse la persona più disonesta a correre per un ruolo pubblico nell’arco delle nostre vite”. Anche nel caso di Trump ci si potrebbe sbizzarrire, con menzogne che in molti casi hanno preso la forma di vere e proprie creazioni cospiratorie. Trump ha detto di aver visto “con i suoi occhi” un video che testimonia il passaggio di 400 milioni di dollari all’Iran per la liberazione di quattro ostaggi americani. Ovviamente, il video non esiste. Trump ha assicurato di aver assistito all’esultanza di musulmani americani di fronte al crollo delle Due Torri; continua a sostenere di possedere un patrimonio personale di 10 miliardi di dollari (cosa che nessuna pubblicazione finanziaria riconosce) e ad ogni suo comizio alza il numero dei presenti e abbassa le cifre della crescita del Pil statunitense. Tre reporter di Politico.com si sono messi a studiare ogni sua affermazione e hanno trovato che Trump mente pubblicamente ogni cinque minuti.
Non sorprende dunque che, intervistati a luglio dal New York Times, gli americani non abbiano una grande opinione dei loro candidati – quanto meno in tema di sincerità politica. Un elettore su tre ritiene che non ci sia assolutamente da fidarsi di Clinton e Trump. E’ la fotografia più limpida di una situazione che si è acutizzata negli ultimi anni, ma che in realtà si colloca in un processo di più lungo periodo. La scarsa fiducia degli americani nei confronti dei propri politici è antica, precipita ovviamente in coincidenza con il Watergate ma non si riprende nel corso degli anni successivi: come del resto testimonia il fiorire di teorie complottistiche durante le presidenze di Ronald Reagan, di Bill Clinton, di George W. Bush e dello stesso Barack Obama (che da anni si porta dietro il sospetto, alimentato dagli ambienti conservatori, di non essere americano e di aver contraffatto il suo certificato di nascita; un’accusa tra l’altro ripresa in molti dei suoi comizi da Donald Trump).
Il clima di sospetto, il fiorire di teorie complottistiche sono dunque proporzionali alla convinzione che molti americani hanno della scarsa sincerità dei loro politici. In realtà in questi ultimi cinquant’anni si è spesso diffusa e dibattuta un’idea totalmente opposta: e cioè che la politica americana sia il regno del rispetto delle regole e della verità. Si tratta, per l’appunto, di una costruzione ideologica e molto di facciata, che risale soprattutto all’immagine di un presidente, Richard Nixon, costretto a dimettersi per le proprie menzogne e per non rischiare l’impeachment. Ma le dimissioni di Nixon si inserivano in un contesto più vasto, di indebolimento dei poteri presidenziali, di conflitto costituzionale tra i poteri dello Stato, di crisi provocata dalla guerra. E tutti i casi più recenti di dimissioni per politici colti in castagna – da Gary Hart ad Anthony Weiner alla storia recentissima di Debbie Wasserman Schultz – riguardano situazioni ormai al limite, indifendibili di fronte allo scandalo e al dileggio ormai generali.
Per il resto, nella politica americana si è mentito e si mente, come in tante altre parti del mondo. Lo si fa durante le presidenziali di quest’anno come lo si è fatto nel passato. Nel 1800 John Adams accusava Thomas Jefferson di essere un ateo (non era veroi) e Jefferson accusava Adams di essere un monarchico (non era vero). Nelle elezioni del 1880 James Garfield mentiva sulle mazzette incassate nello scandalo del Crédi Mobilier e Chester Arthur, il suo rivale, mentiva sulla sua età (lo fece anche Gary Hart).
Per venire ai giorni nostri, Lyndon Johnson nel 1965 mentiva ai giornalisti e agli americani sul grado di coinvolgimento, e le possibilità di vittoria, nella guerra in Vietnam. Se Richard Nixon, secondo tutti i suoi biografi, era un bugiardo patologico (celebre la sua frase di fronte all’esplosione del Watergate: “Nessuno nello staff della Casa Bianca e nell’amministrazione è coinvolto in questa storia”), anche Ronald Reagan, che oggi tutti dipingono come un presidente geniale e cristallino, aveva dei problemi con la realtà (e la verità). Arrivò a dire che gli alberi inquinano più delle macchine e di essere stato presente alla liberazione del campo di concentramento di Bergen Belsen.