Quando parla Piergiorgio Baita, ex amministratore delegato della Mantovani spa, uno dei colossi italiana delle costruzioni, bisogna sempre tenere le orecchie ben aperte. Il manager che ha accusato politici e imprenditori, contribuendo a spalancare per molti di loro le porte del carcere (dopo esserci finito lui stesso), lo ha fatto in Tribunale a Venezia, concludendo il suo interrogatorio come imputato di reato connesso nel processo per lo scandalo Mose. In quel fiume di mazzette, pagamenti in nero, corruzioni pianificate, ha avuto un ruolo di primo piano. E questa volta, ai consueti verbali ha aggiunto una notazione non di poco conto: “Tutto parte da Roma, perché la salvaguardia di Venezia è un caso nazionale”.
Lo scandalo è esploso due anni fa per merito dei pubblici ministeri veneziani Carlo Nordio, Stefano Ancilotto, Stefano Buccini e Paola Tonini. Le sole persone coinvolte nella prima retata sono state 35. Ma mentre è in corso il dibattimento per 8 posizioni residue (ma non marginali, l’ex ministro Altero Matteoli, l’ex sindaco Giorgio Orsoni, l’ex eurodeputato Lia Sartori) su quel malaffare sembra da tempo calato il disinteresse dell’opinione pubblica. Quasi che la razzia di denaro pubblico per un’opera che sta costando alla collettività qualcosa come 5 miliardi e mezzo di euro (e non è ancora conclusa) fosse una questione locale. Ora le parole di Baita riportano all’attenzione il tema di una regia centrale o perlomeno di una grande distrazione istituzionale, che ha consentito al cancro di crescere attorno a un’opera come il Mose e dentro l’elargizione di denaro pubblico.
Sembrano tornati i tempi di Tangentopoli, in cui tutti rubavano e incassavano in sede locale, protetti da un accordo di spartizione a livello centrale tra Democrazia Cristiana, Partito Socialista e anche (seppur in forme originali) Partito Comunista. Baita, in Tribunale, ha alzato il tiro, dicendo quella che solo in apparenza è una ovvietà. Gli intrecci del sistema creato da Giovanni Mazzacurati, presidente del Consorzio Venezia Nuova, dalle società che vi facevano parte e da Baita era tutt’altro che locale. Non poteva esserlo. Per reggersi, per non essere smascherato sul nascere, non poteva che avere una copertura nazionale.
La prova? I personaggi coinvolti, al di là del fatto che abbiano patteggiato, confessato, negato, o siano ancora in attesa di una sentenza. Prendete due ministri della Repubblica, Giancarlo Galan e Altero Matteoli del Pdl. Oppure un consigliere del ministro dell’Economia, come Marco Mario Milanese. Due presidenti del Magistrato alle Acque di Venezia, Patrizio Cuccioletta e Maria Giovanna Piva. Un generale della guardia di Finanza, Emilio Spaziante. Il sindaco di una città come Venezia, Giorgio Orsoni (centrosinistra). L’assessore ai trasporti di lungo corso della Regione Veneto, Renato Chisso (Pdl). Un consigliere regionale del Pd, Giampietro Marchese. Un magistrato della Corte dei Conti, Vittorio Giuseppone. Un parlamentare europeo, come Lia Sartori (Pdl). E un manipolo tra imprenditori, amministratori delegati, funzionari pubblici, al cui vertice va collocato Mazzacurati, “padre” del Mose, il sistema di dighe mobili che dovrebbe salvare Venezia dalle acque alte.
Attorno al Mose non hanno funzionato i controlli, un po’ in tutti i settori, a cominciare dalla presidenza del consiglio e dal ministero dei Lavori Pubblici, con tutte le strutture collegate. La frase di Baita conferma sospetti che aleggiano da tempo e tirano in ballo un livello politico alto in quell’assalto alla diligenza che portava miliardi di euro in laguna. Baita ha spiegato che Mazzacurati andava ogni settimana a Roma, per cercare finanziamenti. Chi incontrava? Quali erano i suoi referenti politici? Baita ha fatto solo qualche accenno in aula ai contatti ministeriali di Mazzacurati. Di certo riguardavano il ministero dei Lavori Pubblici (per il progetto) e dell’Economia (per i finanziamenti), come dimostrato da molti verbali d’interrogatorio.
Sul punto è stato parco di parole: “Mazzacurati non ne parlava, sembrava geloso dei suoi contatti”. Ad esempio, l’ingegnere del Consorzio era amico di Gianni Letta, sottosegretario nei governi Berlusconi, ma ha sempre negato di avergli versato denaro, anche se da molti verbali risultano le visite per ottenere un aiuto per il Mose. Infatti, Letta non è mai stato indagato. A differenza dell’ex ministro Matteoli, che si trova sul banco degli imputati per il disinquinamento di Porto Marghera e i lavori concessi alla Socostramo, dell’imprenditore romano Erasmo Cinque. Entrambi sono accusati di corruzione. Baita ha ribadito che la Socostramo incassava gli utili dei lavori e i pm sostengono che quello era il prezzo della corruzione di Matteoli. Quest’ultimo, con una dichiarazione spontanea, ha rintuzzato Baita: “Come ministro dell’Ambiente non mi sono mai occupato di Mose e non ho mai chiesto favori per qualche azienda”.