di Vitalba Azzolini
La campagna sulla fertilità lanciata giorni fa dal ministro della Salute è stata rapidamente ritirata. Se la mera informazione sul tema è parsa banalizzarne i profili “medici” connessi, ha destato perplessità il più o meno velato invito a non lasciare passare invano l’età utile per la procreazione.
Il ministro Lorenzin non ha forse considerato che i livelli di fecondità più elevati si riscontrano non ove la natalità venga propagandata bensì, come dimostrato da risultati ormai consolidati, negli Stati in cui adeguati strumenti di conciliazione fra vita privata e professione incentivano il lavoro delle donne. Non sembra aver tenuto conto di tali risultati neanche il governo cui il ministro appartiene.
Il riferimento è, in particolare, al decreto (n. 80/2015, attuativo del cosiddetto Jobs act) in materia di conciliazione tra vita e lavoro, il quale si propone di evitare “che le donne debbano essere costrette a scegliere fra avere dei figli oppure lavorare”: a tal fine apporta modifiche alla disciplina dei congedi parentali, aumentandone la flessibilità e l’arco temporale in cui possono essere utilizzati.
La misura, inizialmente sperimentale, è stata quasi subito resa permanente, senza neanche verificarne la concreta idoneità a raggiungere i fini prefissati. Invece, ciò sarebbe stato opportuno, dato quanto emerge dalla Relazione annuale sulle convalide delle dimissioni e risoluzioni consensuali delle lavoratrici madri e dei lavoratori padri diffusa nello scorso giugno dal Ministero del lavoro: nel 2015, le madri che hanno dovuto rinunciare al lavoro (82% del totale) sono aumentate del 19% rispetto all’anno precedente, con una particolare incidenza delle dimissioni (73%) rispetto alle risoluzioni consensuali (3%). Tra le motivazioni più rilevanti viene indicata la “difficoltà di conciliare il lavoro e le esigenze di cura della prole” per assenza di parenti di supporto, mancato accoglimento al nido, costi eccessivi di assistenza del neonato (ad es. per asilo nido o baby sitter).
A un anno circa dall’emanazione del citato decreto, dunque, la verifica di impatto conferma le criticità espresse sulla base di un’analisi svolta ex ante. I dati empirici già dimostravano, infatti, che i congedi parentali possono risultare non solo poco efficaci, ma addirittura dannosi: specificamente, se di lunga durata, possono causare la marginalizzazione delle donne, nuocere alle loro competenze professionali, essere incompatibili con posizioni di responsabilità o manageriali, peggiorare le disparità salariali. In Italia, poi, tali congedi sono scarsamente remunerati e vengono usati soprattutto dalle lavoratrici, in assenza di incentivi che, incrementandone l’uso e la durata per i padri, consentano alle madri di tornare alla propria professione.
E’, invece, la disponibilità di strutture di assistenza all’infanzia ad avere un peso decisivo sulla scelta di riprendere a lavorare dopo il parto, elevando non solo il tasso di occupazione femminile, specie in presenza di una buona flessibilità oraria, ma altresì il tasso di natalità (tema importante e attuale), come dimostrano altri Paesi europei e alcune regioni italiane. Anche Istat attesta che l’assenza di “persone o servizi a cui affidare i bambini” è uno dei fattori più incidenti sull’abbandono dell’impiego da parte delle madri, nonché sulla rinuncia ad avere un figlio per le donne che non possono lasciare il lavoro. Peraltro, tra gli obiettivi della Strategia di Lisbona (Consiglio Europeo di Barcellona, 2002) era indicata un’offerta di nidi atta a soddisfare il 33% dei bambini nella fascia di età sotto i 3 anni entro il 2010 e, in seguito, la Commissione Ue ha sollecitato al raggiungimento di tale risultato gli Stati inadempienti. Tuttavia, l’Italia ancora copre solo il 12% circa dell’utenza fra 0 e 2 anni (dal 24,8% dell’Emilia Romagna al 2% della Campania).
Inoltre, rappresenta un valido incentivo all’offerta di impiego femminile e, quindi, alla maternità, anche un credito di imposta relativo ai costi sostenuti per la cura dei figli così come un sistema fiscale che non penalizzi i secondi percettori di reddito, scoraggiando l’occupazione di chi guadagna meno, di solito la donna. Peraltro, sussidi legati alla sola maternità (quali il recente “bonus bebè”), a differenza di quelli espressamente connessi all’acquisto di servizi per la cura dei figli, hanno effetti “incerti e poco significativi” sia sul tasso di natalità che su quello di lavoro femminile.
Questi ultimi sono invece positivamente influenzati da un insieme di misure di sostegno alla fertilità che interagiscano su vari piani: in Francia, ad esempio, politiche complementari atte a favorire il modello di famiglia “dual earner, dual carer” hanno incrementato impiego femminile e nascite mediante supporti ai costi per la cura dei figli, offerta di strutture pubbliche per la cura dell’infanzia e un sistema di sgravi fiscali. Peraltro, l’Ocse aveva già segnalato un quadro organico di interventi con riferimento alla situazione italiana: considerato che la disponibilità di servizi di cura “accessibili e di buona qualità ha un peso decisivo sulla scelta di ritornare al lavoro dopo la nascita di un figlio”, aveva rilevato la necessità di rafforzare “il sostegno all’offerta pubblica e privata di servizi di assistenza alla prima infanzia”, di fornire “un incentivo fiscale sotto forma di detrazione d’imposta per le spese di assistenza”, di riservare ai padri “una quota del congedo parentale (…) al fine di incoraggiare il loro maggiore coinvolgimento nella cura dei bambini e di promuovere la partecipazione delle madri alla forza lavoro”; infine, di diminuire “le aliquote d’imposizione effettive sul secondo reddito, attualmente le più elevate dell’Ocse”.
Dunque, se – come sopra esposto – natalità e lavoro femminile sono fra loro positivamente correlati e quest’ultimo viene a propria volta favorito da efficaci strumenti di work life balance che in Italia non vengono contemplati o sono presenti in misura insufficiente (ad es., i voucher asili nido/baby sitting sono destinati, solo per pochi mesi, esclusivamente alle madri che abbiano un impiego e condizionati alla rinuncia ai congedi parentali), c’è da stupirsi che il “fertility day” sia suonato come una beffa?