FIRENZE – “Signori miei, io nun posso piagne per questioni di sicurezza nazionale. Che se me metto a piagne io s’allagherebbe tutta Roma, te porterei in gondola a Piazza Navona, s’allagherebbe pure er deserto e la Sfinge nuoterebbe in mare aperto, s’allagherebbe l’universo, er firmamento brillerebbe de sommerso, s’allagherebbe er Paradiso cor pianto mio. E so un pagliaccio, mica Dio” (da Il pagliaccio, Alessandro Mannarino)
Passando dalla casbah affollata che l’amministrazione fiorentina ha lasciato venir su indisturbata, inoltrandosi nel sottobosco incontrollato del Parco delle Cascine, tra tende di fortuna e panchine assiepate e cenci e stracci a delimitare gli accampamenti, scansando bivacchi e giacigli, nella vegetazione di questa zona franca (che un giorno avremmo chiamato “polmone verde della città” e che adesso è soltanto un grande camping all’aria aperta dove con l’arrivare della sera scatta il coprifuoco), ecco che si apre, come oasi di ossigeno, in una piccola radura un piccolo manipolo colorato di camper e roulotte quasi a cingere, chiudere un cerchio magico attorno allo spettacolo dell’arte di strada, a quell’etereo strato di polvere di stelle, inconsistente quanto vivo e solare e brillante, che si appoggia sulle discipline circensi.
Qui, tra il blu scuro dell’Arno, che corre sotto la tramvia che liscia la ruota panoramica (copia vagamente sbiadita di quella londinese sul Tamigi…) e il verde carico degli ippocastani gonfi, scintillano le mille sfumature cromatiche dei tre chapiteau a formare il “villaggio” dell’undicesimo anno del Cirk Fantastik (dal 15 al 25 settembre), rassegna che ha trovato il suo quid, il suo posto ideale, il suo giusto spazio dopo le edizioni in Piazza Santo Spirito, passando per la Limonaia di Villa Strozzi, approdando al Parco dell’Anconella e adesso nella dimensione più consona delle Cascine dove si coniugano apertura, prato e panorami a perdita d’occhio.
Proprio quello che il circo, rigorosamente senza animali, è e cerca di restituire: bellezza semplice, piccoli grandi sorrisi, tecnica mischiata all’umanità, nostalgia e risate, anima e sudore, pop corn e le palle dei giocolieri, passatempo antico che non smetteresti mai di guardare, a 8 come a 88 anni, quasi un mantra che avvolge, un incantesimo nel quale perdersi, un innamoramento, uno sciogliersi.
Vedi le palle rotolare nell’aria e ricadere soffici, segui le linee ondulate e le piroette elettriche dei birilli che disegnano parabole a caduta libera e in un attimo ritorni indietro nel tempo, nella dimensione parallela di ciò che eri. Le palle continuano a saltellare dalle mani esperte, i birilli fanno volteggi che sembrano tuffatori dalla piattaforma e tutto sembra seguire codici imprescindibili, armonie deliziose, variabili di teorie nascoste ai più, a tutti noi con la bocca aperta e il naso all’insù a cercare di carpire il segreto di quell’estasi così apparentemente facile, così profonda ed estrema.
In questo mix ad alta concentrazione di botti e spari, i Nani Rossi (vincitori nel ’15 del concorso genovese Intransito, a cura degli Akropolis, con l’acrobatico e commovente Sogni in scatola) mettono in campo due emuli di Starsky & Hutch, o di qualche b movie cult (Sulle strade della California ma anche la trilogia Una pallottola spuntata o ancora Le strade di San Francisco con Michael Douglas) che devono portare in prigione una pericolosa detenuta in classica tenuta-tuta da Guantanamo. Due guardie sceme, una carcerata-Houdinì furba e scaltra (in alcune coreografie i tre ricordano le Charlie’s Angels in versione maccheronica) e una macchina, per quanto distrutta e che perde i pezzi e che sbuffa fiamme dal motore e si trasforma in pianta carnivora fagocitando e mordendo i secondini (come ne La piccola bottega degli orrori) sono gli ingredienti di questo piccolo, ben riuscito amalgamarsi di topos che solletica, convince, incuriosisce, ci invita, ci stuzzica, ci stimola, ci arricchisce. I Nani Rossi in un giardino sarebbero sprecati, al Parco delle Cascine sono stati esplosivi.
“C’è tanta gente che si diverte a far piangere l’umanità, noi dobbiamo soffrire per divertirla. Manda, se puoi, qualcuno su questo mondo, capace di far ridere me come io faccio ridere gli altri (da La preghiera del clown, Totò).