La riscossione del canone di abbonamento alla televisione è stata delegata, come noto, alle società elettriche, le quali presuppongono l’esistenza di un apparecchio televisivo laddove esista un’utenza elettrica nel luogo della residenza anagrafica. Il governo ritiene così di ridurre drasticamente l’evasione del canone (nello stesso tempo ha diminuito l’entità del canone da 113,5 a 100 euro).
Gli ultimi dati a disposizione confermano il costante calo degli abbonati: nel 2015 la densità è stata pari al 64,15% delle famiglie, contro il 66,87% fatto registrare nel 2010. Circa il 36% delle famiglie non è quindi abbonato, anche se il dato effettivo dell’evasione è inferiore poiché vanno considerate le (poche) famiglie che non hanno il televisore e le coabitazioni. Il sud, dove peraltro il consumo di televisione è più alto, registra i maggiori tassi di evasione, anche se il fenomeno è diffuso un po’ dappertutto.
La disaffezione al pagamento del canone non è un fenomeno solo recente. La crescita degli abbonati è stata piuttosto veloce negli anni successivi all’arrivo della televisione (nel 1967 si raggiunse il 51% di densità). Le punte più elevate sono state conseguite solo a metà degli anni Novanta (l’81% nel 1995), quando il monopolio pubblico era finito da un quindicennio. Si ricordi anche che durante il lungo periodo del monopolio, i governi del tempo preferirono usare metodi piuttosto blandi per ridurre l’evasione (d’altronde la Rai non aveva l’assillo di ricavi aggiuntivi).
La situazione precipita dagli anni duemila. Quali sono i motivi del fenomeno, considerando che negli altri paesi europei la densità si situa sul 95%? Oltre al fatto che i sistemi di controllo e sanzionatori dell’evasione sono stati poco incisivi, va rilevato che il pagamento del canone risente del giudizio che il pubblico dà alla Rai. Giudizio che evidentemente negli ultimi anni non deve essere stato proprio positivo! La programmazione della Rai è valutata in base al grado d’innovazione e di rispetto di tutte le posizioni politiche e culturali. Quando, per esempio, i Tg dedicano (nel periodo 15 aprile – 15 luglio) il 52% del tempo alle posizioni del sì sul referendum costituzionale e il 36% al fronte del no (il 12% riguarda la posizione neutra), il pluralismo è offeso (le due posizioni dovrebbero avere pari esposizione)! Va inoltre considerato che il web ha come resettato il vecchio sistema delle comunicazioni audiovisive, rimettendo in discussione la validità stessa dell’esistenza del servizio pubblico.
Non sappiamo se il nuovo sistema di riscossione del canone sortirà effetti positivi: inizialmente si parlava di 300 milioni di ricavi in più per la Rai, poi di 180 e ultimamente di cifre molto più basse. Fosse vera quest’ultima ipotesi, sarebbe una débâcle! Alcune società elettriche hanno manifestato, pur avendo un tornaconto economico dal nuovo incarico, un certo fastidio per il coinvolgimento e hanno rimarcato con campagne pubblicitarie di non essere diventate una sorta di esattore. Gli strumenti coercitivi lasciano il tempo che trovano, e dubitiamo che solo grazie ad essi si possa ribaltare la situazione. Ciò che deve essere chiaro è che solo una Rai “pulita” può esigere una tassa come un giusto compenso e che solo quando, come rimarchiamo da tempo, si avrà la possibilità di pagare nella misura in cui si guardano effettivamente i programmi della Rai, il pagamento del canone sarà considerato giusto.