Un report dell'istituto guidato da Christine Lagarde evidenzia le gravi ricadute su pil e inflazione dei conflitti armati. Il "caso estremo" è rappresentato dalla Siria, dove gli indici di crescita sono crollati a meno della metà del periodo pre-conflitto. Anche gli Stati che ospitano i rifugiati soffrono: vengono meno coesione sociale e credibilità delle istituzioni. Ma per l'Europa, un'integrazione ben regolamentata dei migranti nel mercato del lavoro potrebbe costituire un'opportunità di ripresa
Non solo “una tragica perdita di vite umane” e “devastazione fisica”: i lunghi ed intensi conflitti in Medio Oriente e nell’area del Nord Africa hanno causato costi economici “massicci e persistenti”. E tutto ciò vale non solo per i Paesi coinvolti nelle interminabili guerre di questi ultimi anni, ma anche – in varia misura – su quelli confinanti e quelli cosiddetti “ospitanti”, cioè maggiormente interessati dalle ondate migratorie. Ad affermarlo è il Fondo Monetario Internazionale, che in un recente studio (The Economic Impact of Conflicts and the Refugee Crisis in the Middle East and North Africa) ha quantificato le ricadute medie causate dai conflitti armati sulla crescita reale annuale in 179 Paesi, per poi concentrarsi sull’area sud del Mediterraneo e sulla fascia mediorientale.
Queste, in sintesi, le ripercussioni delle guerre sull’economia: “profonda recessione” (quasi 2 punti di Pil all’anno), aumento dell’inflazione (una crescita dell’indice dei prezzi al consumo che si attesta all’1,6%), deterioramento delle condizioni fiscali e finanziarie, indebolimento delle istituzioni. Quanto agli Stati vicini a quelli coinvolti nei conflitti, e costretti a far fronte ad un grande numero di rifugiati, vi si riscontra una diminuzione della sicurezza reale e di quella percepita e un peggioramento della coesione sociale che mina la fiducia nelle istituzioni e la loro capacità di elaborare le riforme economiche più urgenti. È una minaccia, questa, che riguarda soprattutto Libano, Giordania, Tunisia e Turchia, e che si riflette solo in parte sull’Europa, dove l’afflusso di migranti potrebbe avere effetti meno gravi, e portare persino qualche opportunità di ravvivare il mercato del lavoro.
Scendendo nel dettaglio, i dati specifici di alcuni singoli Paesi rendono un’idea di quanto costino le guerre nell’area mediorientale. In Siria, dopo 4 anni di conflitto, il pil è crollato a meno della metà del livello registrato nel 2010. Lo Yemen accusa una perdita nell’indice della crescita che, per il solo 2015, si aggira tra il 25 ed il 35%. Non va meglio in Nord Africa: il Pil libico è diminuito del 24% nel solo 2014. La prospettiva a lungo termine di ciò che potrebbe accadere in questi Stati, avverte l’Fmi, è quella – assai poco lusinghiera – della Cisgiordania e della Striscia di Gaza.
Recessione ma non solo. L’altra gravosa eredità dei conflitti nell’area analizzata dall’Fmi è quella dell’inflazione galoppante. In Iraq e Afghanistan, nei primi anni Duemila è stata del 30%, in Libia e Yemen ha viaggiato al ritmo del 15% nel 2011. E anche rispetto a questo indicatore, la Siria costituisce “un caso ancora più estremo”, con un aumento dei prezzi del 300% tra marzo 2011 e maggio 2015. Sono dinamiche, quelle inflattive, spesso connesse con una forte svalutazione delle valute locali. Ed è soprattutto la durata dei conflitti ad affossare le economie dei Paesi che ne sono interessati. Il crollo del pil, sottolinea l’istituto diretto da Christine Lagarde, “aumenta in proporzione alla durata dell’esposizione alla violenza”. Stesso discorso per l’inflazione.
Ma gli impatti delle guerre, come detto, si ripercuotono anche sulle economie dei “Paesi vicini“. In media, gli Stati che confinano con le zone di crisi militare nel Medio Oriente e nel Nord Africa soffrono un calo del pil dell’1,9% annuo e un’aumento del tasso d’inflazione del 2,8% medio. Ma in questo caso le ricadute dei conflitti non sono soltanto strettamente legate agli indicatori di crescita. Da un lato, infatti, c’è la credibilità delle istituzioni. L’Fmi spiega che il flusso di migranti verso l’UE (1,7 milioni dal 2014 hanno raggiunto uno degli Stati membri) sta “minando importanti conquiste del progetto europeo, come la libertà di movimento delle persone attraverso i confini nazionali, e sta contribuendo ad un crescente senso d’insicurezza“. Dall’altro, la pressione sempre più forte che le masse di rifugiati esercitano su “servizi pubblici già in crisi”.
C’è poi la questione del mercato del lavoro. E qui i tecnici di Washington indicano una differenza tra l’Europa e il resto dei Paesi dell’area del sud e dell’est del Mediterraneo che sono stati investiti dalle ondate migratorie generate dalle guerre di questi ultimi anni. Se, infatti, in Stati come Giordania e Libano l’impatto economico dello scoppio dei vari conflitti è stato “significativo”, questo in Europa è accaduto in misura assai minore. E anzi, lo studio dell’Fmi indica gli eventuali vantaggi che il Vecchio Continente potrebbe ottenere attraverso un’integrazione ben regolamentata. In alcuni Paesi dell’Unione “interessati dall’invecchiamento della popolazione e dalla mancanza di manodopera“, infatti, “l’accesso nel mercato del lavoro di un numero di rifugiati limitato rispetto al totale della popolazione potrebbe avere un effetto molto più positivo sulla crescita economica” di quanto non avvenga negli Stati più arretrati dell’area mediorientale.