In attesa del vernissage della mostra di Ai Weiwei, che aprirà i battenti fra poche ore a Palazzo Strozzi e per la quale ci sono febbrili aspettative, i suoi ormai celebri gommoni campeggiano da un po’ sulle facciate del palazzo. E fanno molto discutere. In particolare, ne discutono i fiorentini, che con l’arte hanno un rapporto “familiare”. E hanno anche un rapporto viscerale con la città. Mi pare che la “critica” di solito quando c’è una cosa del genere a Firenze si divida tra “orrore, non è in linea con l’identità della città” oppure “bellissimo, finalmente una svecchiata, non se ne può più con ‘la culla del Rinascimento'”.
Se questo è solitamente il dibattito, tertium datur e pure quartum. Poiché se l’identità di Firenze – ne avevamo parlato a proposito della questione del McDonald’s davanti al duomo – è un piano scivoloso che rischia di propugnare un’immagine sclerotizzata della città cacciandola in una non-storia in cui niente può più cambiare, il rifiuto di un passato vissuto come ormai troppo ingombrante rischia di produrre facili entusiasmi per ogni evento che apra una fenditura nella crosta del sempre uguale.
Dunque tertium, dicevamo: l’opera fa schifo o è sublime non perché sia o no in linea con l’identità di Firenze, ma perché spregevole o bellissima di suo. Quartum: il “bellissimo” deriva un po’ troppo spesso dall’amara consapevolezza dall’impossibilità di svecchiare Firenze, per cui qualsiasi cosa, pure un cranio di Damien Hirst o una tartaruga gigante dorata di Jan Fabre o una statua di Jeff Koons danno ossigeno a chi non ne può più. Peraltro gli esempi non sono tratti a caso: tutti “sensazionalistici”, estemporanei, episodici, senza alcuna idea complessiva sullo sviluppo artistico della città, buttati lì, di passaggio.
Naturalmente c’è chi sovrappone il significato politico del lavoro di Ai WeiWei al suo valore artistico. Tomaso Montanari si è espresso a favore dell’installazione fondamentalmente, mi è parso di capire, per due motivi: la politicità dell’opera, ovvero la denuncia della tragedia dei migranti; la sua originalità, ovvero il suo essere stata pensata specificamente per Firenze, per quelle finestre, per quel palazzo. È lo stesso artista cinese ad avere dichiarato la non separabilità tra le due dimensioni, quella artistica e quella politica: “Tutto è arte, tutto è politica”, afferma in Weiwei-isms (Princeton University Press; tradotto in italiano da Einaudi Stile Libero), una raccolta di aforismi in cui a più riprese lo ribadisce, dichiarando per esempio di aver iniziato a fare arte per sfuggire alle regole sociali e politiche, per finire a fare un’arte sempre più politica.
Niente di male: Weiwei dice anche di passare davvero poco tempo a fare cose come “arte in quanto arte”. Anzi, se l’opera di un artista fa discutere di questo gigantesco rimosso – il Mediterraneo come cimitero, l’accoglienza e la fratellanza come chimere – ben venga. Forse in fondo l’arte però, lo dico in modo interrogativo e da “profano” che ne discute la dimensione politica, aspirerebbe a un respiro universale? Guernica, l’opera più “politica” del Novecento, quella più propagandistica, in realtà subì da parte di Picasso l’eliminazione di tutte le allusioni politiche contingenti, per diventare un quadro sulla tragedia e sulla morte, come scrive Carlo Ginzburg (Paura reverenza terrore, Adelphi). L’opera di Weiwei invece non si può separare dalla sua biografia, né dal suo messaggio esplicito.
Intanto nella piazza davanti a Palazzo Strozzi, di fronte ai gommoni, troneggiava l’altro ieri una stupenda automobile fiammante e costosissima con due bellissime hostess. Con l’effetto straniante di una installazione destinata a risvegliare le coscienze e a colpire su un tema così terribile e tragico che convive con una pubblicità di auto di lusso che probabilmente gode del potere di attrazione dell’opera di Weiwei.
Questa contrapposizione tra l’auto e i gommoni rappresenta forse zwei Weltanschauungen, due visioni del mondo, per riprendere l’espressione che il governo tedesco usò per definire i due padiglioni sovietico e tedesco che si fronteggiavano, enormi, sulla rive gauche nel 1937 per l’Esposizione Internazionale delle Arti e delle Tecniche Applicate alla Vita Moderna? O non è forse il rischio dell’arte contemporanea di ridurre l’opera a performance che invece di colpire, scandalizzare, risvegliare, entra a pieno titolo nel tourbillon di “eventi” in cui l’auto di lusso e i gommoni appesi fanno parte, rispecchiandosi, dello stesso mondo glitterato ed effimero?