Fatta la premessa, Perotti mette in fila una teoria di esempi di come i privilegi della classe dirigente siano rimasti impermeabili ai proclami di cambiamento, le proposte migliori per sfoltirli e al tempo stesso intervenire in favore dei cittadini con i redditi più bassi vengano puntualmente bocciate senza appello e la trasparenza sia ancora una chimera. Prendiamo i dirigenti ministeriali: in rapporto ai non dirigenti sono il 50% in più che in Gran Bretagna, Paese con un’economia e una popolazione comparabili a quelli italiani e un settore pubblico efficiente, e “al netto delle tasse sono pagati almeno il 20 per cento in più dei loro omologhi britannici”. Non solo: anche rispetto ai loro sottoposti hanno una retribuzione media del 30% superiore, “con punte dell’80%”. Nella Stabilità per il 2015, racconta Perotti, c’era “un articoletto per impedire di aggirare il tetto di 240.000 euro”, norma che causò il panico durante la riunione con un gruppo di dirigenti per rileggere l’articolato della manovra la sera dopo l’approvazione da parte del Consiglio dei ministri. Tutto risolto quando “squillò il telefono di un altissimo dirigente del ministero dell’Economia, che comunicò con un sorriso raggiante: “Mi dicono che la norma sui 240.000 euro che abbiamo appena discusso sarebbe incostituzionale”. Velo pietoso anche sulle penalizzazioni economiche previste dal decreto Madia sulla riforma delle partecipate per i manager che le amministrano male: “per conservare tutti i propri emolumenti gli amministratori non devono far altro che approvare un piano di risanamento“.

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