Quasi superfluo tornare sugli stipendi dei parlamentari, intoccabili da parte del governo a causa dell’autodichia, l’autonomia degli organi costituzionali nel decidere sui propri bilanci. Basti dire che un confronto con i compensi 2015 degli omologhi britannici evidenzia che i deputati italiani, tra indennità, diaria, rimborsi e quota parte dei contributi ai gruppi parlamentari e del rimborso delle spese elettorali, hanno preso l’anno scorso 26.823 euro netti contro i 19.825 degli inglesi. E i vitalizi, che costano in media “7 euro a ogni italiano (inclusi anziani e neonati)” e permettono agli ex deputati e senatori rimasti in carica almeno 5 anni e che abbiano lasciato lo scranno prima del 2012 (per gli altri è scattato il sistema contributivo) di ricevere in media, rispettivamente, 100mila e 90mila euro l’anno? Applicare la proposta di riforma complessiva del sistema pensionistico Non per cassa ma per equità del presidente Inps Tito Boeri, che prevede il ricalcolo di tutti gli assegni oltre i 3.500 euro mensili secondo il metodo contributivo, permetterebbe di ridurre le uscite di un terzo rispetto agli oltre 400 milioni attuali (tra Camera, Senato e consigli regionali). “Non un’enormità”, ammette Perotti, ma il punto è un altro: l’impatto simbolico di incidere su un trattamento di favore che “fa particolarmente imbestialire gli italiani”. Per farlo, però, occorre che l’operazione vada di pari passo con “un’azione sistematica contro tutti gli altri privilegi immotivati, insieme a un programma serio di revisione della spesa” che “metta i parlamentari con le spalle al muro“.

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