Il 15 febbraio 2012, quando il capo del governo dei tecnici oppose il gran rifiuto al Coni, il quotidiano di via Solferino difese la decisione evocando l'"impasto mostruoso di burocrazia, interessi politici e lobbistici che spesso alimenta la corruzione", gli spechi di Italia 90 e i "mondiali di nuoto senza le piscine" del 2009. Gli stessi esempi utilizzati da Raggi per illustrare il suo "no". Solo che oggi il Corriere sostiene le argomentazioni opposte per criticare "l'occasione persa" dell'amministrazione capitolina
“Questo è un Paese nel quale da dieci anni si monta e poi si smonta, quindi si rimonta, per poi smontarla di nuovo, la giostra del Ponte sullo Stretto di Messina: incuranti di penali monstre che nel frattempo lo Stato si è impegnato a pagare. Dove i costi della metropolitana C di Roma esplodono in modo così fragoroso che non è possibile immaginare quando e se la vedremo finita. E uno sguardo andrebbe rivolto anche all’Expo 2015 di Milano, per cui la Corte dei conti ha eccepito che ‘la complessità, l’onerosità e la ridondanza delle strutture’ decisionali rischia di causare ‘difficoltà e disfunzioni sul piano operativo’“.
Chi è l’autore di queste righe? Beppe Grillo che sul suo blog fornisce un quadro teorico al “no alle Olimpiadi del mattone” con cui Virginia Raggi ha messo fine all’avventura di Roma 2024? Il più zelante degli attivisti dell’armata internautica grillina, impegnato a difendere sui social network la decisione della sindaca? No, lo scriveva sul Corriere della Sera Sergio Rizzo il 15 febbraio 2012, il giorno successivo a quello in cui Mario Monti oppose il gran rifiuto alle Olimpiadi di Roma 2020. Attingendo alla stessa categoria di argomentazioni con cui il capo dell’amministrazione capitolina mercoledì ha motivato la scelta di non sostenere la candidatura della Capitale per i Giochi che si disputeranno tra otto anni. Argomentazioni evidentemente non più valide se oggi lo stesso Rizzo ha bocciato il no di Virginia Raggi con queste parole: “Per una forza politica che si candida a governare il Paese per cambiare tutto, questa è una occasione persa“. E ancora: “Hanno scelto di non mettersi in gioco. La scelta più facile, in questo momento“.
Quattro anni fa la logica uguale e contraria era utilizzata dal giornalista del Corriere per dare ragione al capo del governo dei tecnici e rammentare al “partito dei Giochi” che “da troppi anni sbagliamo, e per difetto, ogni preventivo. Di soldi e di tempi. Non per colpa dei ragionieri, ma di una macchina impazzita che macina ricorsi al Tar, arbitrati, revisioni prezzi, varianti in corso d’opera, veti di chicchessia: dalle Regioni alle circoscrizioni. Un impasto mostruoso di burocrazia, interessi politici e lobbistici che spesso alimenta la corruzione e ci fa pagare un chilometro di strada il triplo che nel resto d’Europa. E in due decenni non è cambiato proprio nulla. Anzi. Per rifare gli stadi di Italia 90 abbiamo speso l’equivalente di un miliardo e 160 milioni di euro attuali, l’84% più di quanto era previsto? Nel 2009 ci siamo superati, arrivando ai mondiali di nuoto senza le piscine. In compenso, però, con una bella dose di inchieste giudiziarie“. Il Mondiale di calcio del 1990 e quelli di nuoto di 19 anni dopo, i medesimi esempi utilizzati da Raggi per illustrare il suo “no”.
Si dirà: “Le Olimpiadi potevano essere una prova di maturità per il M5S che avrebbe avuto l’occasione di dimostrare che ‘gli appalti pubblici si possono fare anche senza corrompere e rubare’“, come scrive oggi lo stesso Rizzo. Giusto, giustissimo. Ma allora perché lo stesso tipo di ragionamento non è stato applicato al sobrio governo Monti, catapultato a Palazzo Chigi per volere di Bruxelles allo scopo di riportare all’ordine quella pantagruelica mangiatoia che è la cosa pubblica italiana?
Sul resto, Rizzo ha ragione: gli ondeggiamenti del Movimento in materia sono storia, che si è trattato di una decisione politica “servita a rinserrare i ranghi” dopo il caos delle nomine, che “nessuno ha capito com’è stata presa” questa decisione e che la diretta streaming è bella solo quando fa comodo. Ma qui, oltre che di merito, la questione è di metodo. “Conosciamo l’obiezione: i precedenti disastrosi non sono un buon motivo per non fare le cose. Giustissimo. Ma sono un’ottima ragione per andarci con i piedi di piombo. Almeno quando rischiare una montagna di denari pubblici non è proprio necessario. Come adesso“. Chi verga queste righe? Virginia Raggi nel 2016? No, Sergio Rizzo nel 2012.