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Libia, “se vedi la barca, devi salpare o ti uccidono”. Così i trafficanti costringono i migranti a partire per l’Italia

Per l'Organizzazione Internazionale delle Migrazioni, molti dei profughi che sbarcano in Italia sono stati costretti a salpare con la forza: l'ipotesi è che sia un modo per conservare il mito secondo cui le barche con cui si affronta il Mediterraneo siano sicure. A volte sono gli stessi datori di lavoro a consegnare i loro dipendenti stranieri ai trafficanti, che poi li costringono a prendere il mare. E anche famiglie e pezzi dello Stato si organizzano per il business

“Quando ho visto il mare e i gommoni gonfiabili ho chiamato il libico per dirgli: ‘No, non posso partire in queste condizioni con mia moglie e mio figlio’. Lui mi ha risposto: ‘Tu parti, oppure morirai qui e porterò il tuo cadavere nel deserto’”. La regola è semplice: chiunque veda le barche, non può più tornare indietro. Tchamba, 36 anni, migrante subsahariano, lo ha capito solo dalla spiaggia di una delle cittadine a est di Tripoli da cui si parte: Zuwara, Sabratha e Surman le principali. I trafficanti gli avevano detto che per arrivare in Europa avrebbe dovuto attraversare “the river”, il fiume: invece davanti a lui c’era il Canale di Sicilia. Il mar Mediterraneo. A quel punto Tchamba avrebbe voluto fermarsi. Ma è stato costretto a imbarcarsi, con una pistola puntata addosso.

Sono sempre più frequenti le storie di migranti forzati a partire dalla Libia alla volta dell’Italia registrate dagli operatori dell’Organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim). Si tratta di persone arrivate dall’Africa Subsahariana con l’idea di fermarsi nel Paese precipitato nella guerra civile dopo la caduta di Muammar Gheddafi e trovare un lavoro. Oppure di migranti che avrebbero voluto, come Tchamba, tornare sui propri passi. O ancora di immigrati che dopo mesi passati in un centro di detenzione sono stati caricati su un’imbarcazione contro la loro volontà, in alcuni casi quasi senza accorgersene. In Libia si stima che gli immigrati siano circa 700mila e di questi circa 150mila hanno raggiunto le coste italiane. Ma è ancora troppo presto per capire quanti siano quelli fatti partire con la forza.

L’Oim ha raccolto le testimonianze di chi ce l’ha fatta. I 6-700 dollari per il viaggio si pagano prima e chi salda il conto non può più cambiare idea: un passo indietro, nella logica delle organizzazioni, comporterebbe cattiva pubblicità e rischierebbe di compromettere i viaggi, e quindi gli affari, futuri. Il motivo per cui ancora tanta gente sfida la morte, infatti, è che fino a pochi minuti prima di partire nessuno conosce il mezzo sul quale si raggiunge l’Italia: “Da qui sembra impossibile – spiega il portavoce italiano dell’Oim, Flavio Di Giacomo – ma chi decide di partire non ha la minima idea delle condizioni in cui si troverà ad affrontare il viaggio”. L’ipotesi dell’Oim è che le partenze forzate siano un modo per conservare il mito secondo cui le barche con cui si parte per l’Europa siano sicure: qualunque versione differente rischia di compromettere un sistema di “buona pubblicità” ormai collaudato negli anni, nonostante i naufragi.

La storia di Tchamba è diventata una clip dell’ultimo progetto congiunto Oim-Ministero dell’Interno, lanciato il 28 luglio: Aware migrants è il titolo. Sono brevi video da condividere soprattutto sui social, le piattaforme principali attraverso cui le organizzazioni di trafficanti cacciano nuovi clienti. Filmati concepiti per dissuadere chi ancora pensa che la Libia sia un posto sicuro dove trovare un lavoro o che il viaggio si faccia su navi adeguate.

A volte sono gli stessi datori di lavoro a consegnare i loro “dipendenti”, dopo mesi in cui non hanno percepito lo stipendio, direttamente nelle mani di qualche gruppo di trafficanti, che poi li costringe a prendere il mare. Dopo cinque anni di guerra civile una parte consistente dell’economia del Paese, potenzialmente tra i più ricchi del Nord Africa, si basa sul traffico di uomini. Così, oltre ai gruppi organizzati, anche famiglie che una volta campavano d’altro ora si gettano in questo business.

Anche finire in un centro di detenzione libico con l’accusa di “immigrazione irregolare”, soprattutto a Tripoli e a Beni Wahlid, città a 180 km dalla capitale, è molto frequente. Queste carceri sono gestite dal Dipartimento per combattere l’immigrazione irregolare (DCIM) libico, uno dei pezzi dello Stato che più sta fatturando grazie al traffico di esseri umani: “Per essere rilasciati, i prigionieri devono chiedere a qualcuno di pagare un riscatto – spiega Zakariya El Zaidy, responsabile per il Danish Refugee Council di alcuni progetti di accoglienza per i migranti in Libia – alle guardie corrotte non importa chi lo faccia”.

Per qualcuno paga la famiglia, per altri, come Endalkachew Gebrehiwot, intervistato da Al Jazeera, la liberazione costa dieci mesi di lavori forzati, fino a raggiungere quota 4.500 dollari. “Non ti aspetti di sopravvivere ai campi di concentramento”, ha raccontato il rifugiato alla tv araba. Dopo la scarcerazione, i migranti sono portati sulla spiaggia e imbarcati. E capita che tra loro ci sia chi non aveva intenzione di prendere il mare. L’ente preposto al controllo delle coste per impedire le partenze dei barconi è la Guardia costiera libica, che è “debole, corrotta e senza mezzi”, spiega El Zaidy. I numeri sono impressionanti: nei mesi trascorsi nel Paese, in media più di sei, 9 migranti su 10, stando alle testimonianze raccolte dall’Oim, subiscono torture e violenze, sia dalle milizie che dai trafficanti.

Il caos libico pone un nuovo enorme problema enorme alle organizzazioni non governative. Non solo umanitario, bensì legale. Come fotografato dall’ultimo report dell’Oim sulla mobilità interna in Libia, l’87% dei migranti in Libia si è trasferito per motivi economici, mentre il 5% fuggiva da una guerra e il restante 8% scappava per altre ragioni. E in tanti in Libia hanno provato a restare: il 65% del campione aveva lasciato il Paese d’origine da più di sei mesi. Ma il Paese di transito non conta per l’asilo. La Libia però è un inferno da cui è sempre più difficile uscire e tornare indietro: “Chi è più vulnerabile oggi, un subsahariano in Libia o un siriano all’interno di un campo profughi in Turchia?”, domanda in forma retorica Di Giacomo.