FIRENZE – “Le promesse sono fatte per essere infrante, le emozioni sono intense, le parole sono banali, i piaceri rimangono e così anche il dolore, le parole sono insignificanti e trascurabili. Le parole sono davvero superflue, possono solo fare male”. (Depeche Mode, Enjoy the silence)
Una volta c’era il gioco del silenzio. Era un po’ punizione, un po’ repressione. Vincevano i bambini saggi, quelli che non giocavano a palla nell’intervallo, quelli che non disobbedivano agli ordini delle maestre, quelli che, alla campanella, facevano con calma la cartella senza lanciarsi dalle scale all’uscita, quelli che si tenevano per mano a due a due trotterellando verso i genitori sorridenti.
Fare silenzio è condizione principe dello stare a teatro, del seguire con attenzione chi sta parlando dal palco. Che oggi troppo spesso c’è un click di fotografia o una suoneria stupida di un cellulare a interrompere il flusso drammaturgico. Rimanere in silenzio, poi, porta con sé anche un qualcosa di colpevole o complice, sei rimasto senza parole perché non sapevi come discolparti, cosa dire al riguardo, che le parole e la dialettica danno sempre l’impressione di essere scappatoie migliori rispetto ad un nulla percepito come vuoto, assenza di sostanza. “Il silenzio è un un recinto intorno alla saggezza”, proverbio tedesco.
John Cage fu, ed è tuttora, l’emblema del silenzio in musica, di quella pausa prolungata che aumenta la suspense, allunga l’attesa, dilata il necessario respiro tra una nota e l’altra. Che anche il silenzio può essere musica. “Silenzio, parola controtempo: il silenzio sta fuori del tempo”, comincia così l’intenso saggio del violoncellista Mario Brunello attorno al tema (Silenzio, Il Mulino).
Il silenzio in qualche modo è anacronistico, oggi così invasi da meccanismi elettronici e sollecitazioni e svaghi e allarmi di ogni sorta a richiamare le nostre orecchie, la nostra testa, il nostro cervello e il nostro portafogli in un’altra direzione. Il silenzio pare essere caduto fuori moda, desolato, una situazione obsoleta, lontana nel tempo. Stare nel silenzio sembra essere una condanna; significa non stare nel fulcro dell’azione, dove nascono, crescono e vivono le cose, dove succedono gli eventi, dove ci sono bicchieri tintinnanti e luci e flash. Il silenzio è l’antitesi dell’essere social, dell’animale da selfie. “L’uomo in silenzio è più bello da ascoltare”, proverbio giapponese.
Siamo in un teatro, sul palco nessun attore, nessuno davanti a noi a cui concedere, donare il proprio silenzio per essere contraccambiati dall’armonia delle sue parole. Qui, stanotte con il Sognare a teatro (23-28 settembre, ma anche dal 5 al 10 maggio ’17 al Teatro Era di Pontedera; a cura di Elisa Cuppini e Roberto Bacci), il silenzio è tutto ciò che è possibile fare, essere, ascoltare. Siamo nuvole di pensiero. Dodici letti, dodici brande, dodici ore (dalle 20.30 della sera alle 8.30 del giorno dopo) come fossimo gli apostoli in attesa della luce del mattino.
E’ straniante stare in un luogo che ha senso quando è popolato di figure e di occhi e piedi a cercare, a vedere, a scoprire. Un teatro vuoto pare che manchi della sua funzione principe, del suo collante con il resto del mondo là fuori. Se il silenzio è un liquido amniotico, qui, stanotte (sembra di essere dentro il sogno-incubo fantastico di Una notte al museo), il Teatro della Pergola è la pancia di nostra madre che ci tiene, ci culla, ci abbraccia caldi.
Il silenzio è l’abisso delle profondità marine. Stanotte siamo sub tra le grotte di un buio in questa bolla chiamata palcoscenico, da sempre piena di parole e che stasera è piena della mancanza, gonfia di questa materia nebulosa e grassa, di questa nuvola di panna croccante che è questa assenza che si fa pesante, spessa, densa. Se “nel deserto il silenzio è orizzontale, in montagna verticale”, in teatro è frontale, come la marcia del Quarto Stato che ti viene addosso, e tu non puoi scansarla. “La vera musica è il silenzio. Tutte le note non fanno che incorniciare il silenzio”, Miles Davis.